lunedì 15 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Francesco, ancora un passo per l'integrazione.

Francesco è più o meno coetaneo di Paola. Vicine, simili, sono le circostanze e i tempi in cui cresce, le realtà quotidiane in cui cerca la propria strada per una vera integrazione. Diverse, come sempre succede tra un individuo e l'altro, sono le tappe della sua vita e soprattutto le riflessioni a cui giunge suo padre, in questa testimonianza che diventa un'occasione preziosa per porsi delle domande, sul presente e sul futuro di Francesco e dei ragazzi con i suoi stessi problemi. Tra molte speranze, qualche amarezza, e soprattutto una piena consapevolezza di quanto sia dura e difficile, in realtà, la strada che porta a una vera e completa integrazione.

Francesco

Francesco oggi ha 41 anni. Le cose sono cambiate molto con il tempo, da quando è nato a oggi. Intanto nel rapporto con questi ragazzi, nella capacità che la società ha sviluppato per intervenire, integrarli, farli migliorare.




Quando portammo Francesco all'asilo nido non ce lo presero. Quando lo portammo a scuola non ce lo presero. Questi erano i fatti. Le scuole non erano attrezzate, e sicuramente in quei tempi si aveva una sorata di paura, il timore di affrontare la diversità.

Quello che è stato fatto dai genitori della mia generazione è questo: riuscire un po' alla volta a far accettare questi ragazzi, che adesso non sono più ghettizzati e se non altro vengono accolti. Come vengono accolti, e cosa si faccia per loro, è di certo un altro discorso, che dipende dalla sensibilità, dalla competenza delle persone, e per ogni singolo individuo anche dalla fortuna: di capitare in una struttura adeguata, di fronte a figure preparate. Ci sono di certo persone molto attente, molto disponibili, brave, ma accanto a loro ci sono individui meno adeguati. Questo secondo me è un punto, cioè un obiettivo da rilanciare per il presente: il controllo che dovrebbe essere esercitato sulle competenze e i servizi che vengono offerti ai nostri ragazzi.

La nascita di Francesco fu seguita con tutte le attenzioni, anche perché il parto del mio primo figlio era stato molto travagliato. Quando mia moglie entrò in clinica il personale medico ci assicurò che dal punto di vista del parto non ci sarebbero stati problemi, e in effetti fu così, andò tutto bene. Però ricordo che in quei momenti passò di lì il ginecologo e naturalmente mi avvicinai per salutarlo: mi accorsi subito che c'era qualcosa che non andava. Ebbi la netta sensazione che mi evitasse, e mi rendo ben conto che non sia affatto facile dire determinate cose in faccia, a un genitore. Infatti mi disse soltanto che sarebbe stato meglio parlare con il pediatra, e così facemmo. Il pediatra venne subito e mi spiegò come stavano le cose. I problemi sono iniziati subito dopo, quando abbiamo dovuto metterci in giro per capire cosa si poteva fare. A quei tempi non c'era davvero niente, proprio non si sapeva dove sbattere la testa. Molte volte ci siamo resi conto che anche chi ci avrebbe dovuto dare delle informazioni non era in grado, non era all'altezza di darcele. Anche nell'ambiente medico scoprivamo che i problemi dell'handicap erano conosciuti relativamente. Va detto che a quell'epoca le famiglie, in generale, tendevano soprattutto a proteggere, nascondere il figlio, e c'era anche una sorta di vergogna, come se questa diversità implicasse una colpa. In giro se ne vedevano pochi, di ragazzi handicappati, e per quelli che si vedevano c'era da considerare bene l'atteggiamento della gente intorno. Mi ricordo per esempio di quando portavamo Franesco ai giardini pubblici. La prima cosa che colpiva, era che le mamme prendevano i loro figli e li portavano via. La cosa non mi scandalizzava, pensavo che come al solito ciò che non si conosce fa paura, e sostanzialmente, si cerca di evitarlo. Va così, da sempre.
Noi abbiamo forse fatto da apripista, in questo senso, incontrandoci come Associazione: persone che non intendevano recludere il proprio figlio ma volevano portarlo fuori, farlo vivere. E piano piano, la gente e poi le istituzioni hanno cominciato a prenderci in considerazione. Però all'asilo, per intenderci, Francesco lo abbiamo mandato dalle suore, le uniche che lo hanno voluto, e che se non altro ci mettevano tutte le loro buone volontà. Lo abbiamo poi iscritto al Cemea, scuola materna Margherita Foscolo, dove lavoravano benissimo. Una scuola materna d'avanguardia, dove con Francesco hanno fatto davvero un lavoro magnifico: persone molto preparate a trattare con i bambini, e non dico con gli handicappati, dico con i bambini in generale. Francesco ha fatto poi le elementari e le medie nella scuola statale, con un'assistenza. Le cose non erano di certo semplici ma comunque l'inserimento c'era. Del resto i nostri ragazzi, quelli della generazione di Francesco, sono stati tra virgolette delle cavie, in un periodo che ha aperto diverse strade.

Il punto più duro è che poi, nel tempo, a conti fatti, i nostri ragazzi sono rientrati in famiglia. Il problema irrisolto per me è questo: cosa fanno poi, crescendo, questi ragazzi? Molti sono rimasti in famiglia. Anche perché se per loro si crea una vera rete di rapporti con i ragazzi "normali", è inevitabile che finisca così.
Francesco per esempio è stato nei boyscout. Lo trattavano veramente come uno qualsiasi, e con loro è stato bene per molti anni. Anche perché lui rimaneva lo stesso, e intorno i ragazzi crescevano e cambiavano. C'è rimasto una quindicina d'anni, serenamente. E poi?
Gli altri si sposano, si creano una famiglia, fanno figli. Certo continuano ad avere dei momenti di condivisione, insieme: si incontrano, fanno feste, ma nella vita reale restano su binari distanti. Con i suoi fratelli è successa la stessa cosa. E' logico che siano molto legati ma che allo stesso tempo si siano fatti una vita loro, perché neanche sarebbe giusto che Francesco influisse troppo sulle loro esistenze.
E per questo credo che anche per i ragazzi come lui possano accrescere problemi di natura psicologica. Perché è ovvio che lui si renda conto. Tanto che a volte viene da domandarsi quanto sia stato giusto tutto questo percorso, portandolo fuori dalla famiglia quando poi in realtà il suo unico mondo rimane la famiglia stessa, viene da chiedersi quanto sia stato onesto fargli intravedere qualcosa del fuori, del mondo vero, perché poi capisse sulla propria pelle che per lui tutto ciò sarà irraggiungibile.
Nonostante che molti di questi ragazzi siano autonomi, autosuffficienti, la loro capacità di relazione con i coetanei, di integrazione vera e propria, è difficile. Francesco sta con me e sua madre. Passa la giornata in un istituto, dove si trova bene, e a volte credo che nella misura della sua incompleta autosufficienza stia la sua fortuna. A volte mi viene da pensare che quei ragazzi più autonomi e più consapevoli di lui possano soffrire ancora più duramente. Mi sembra quasi automatico: vedono che i coetanei si ritrovano, stanno fuori insieme, hanno un'auto, una moto, si sposano, eccetera. Così a loro volta domandano ai genitori: perché io no? Come mai?
Non voglio essere catastrofista, soltanto obiettivo, perché le cose vanno affrontate per quello che sono.

Il passo successivo sarà molto difficile, questo voglio dire. E' stata fatta molta strada e forse manca l'ultimo scalino, quello della vera integrazione, e probabilmente sarà il più duro da superare. Riuscire a trovare dei meccanismi di vita in cui i nostri ragazzi si integrino pienamente insieme aglia altri. E' ovvio che come gli altri provino sentimenti, abbiano amori, passioni, ambizioni, ma è dura farli convivere, anche nelle differenze che per loro comportano certi momenti.
Questi ragazzi hanno i loro limiti ma hanno anche la loro sensibilità, e soffrono. E anche se in fin dei conti ho una visione ottimistica del mondo, anche se l'educazione che ho dato a Francesco va in questo senso qui, perché in tutto e per tutto è considerato un figlio come gli altri, credo che sarà dura salire l'ultimo gradino.
Molte barriere sono cadutte, i ragazzi Down sono stati accettati e grazie al cielo abbiamo anche superato questo modo di pensare a loro come agli scemi del villaggio. E' caduta la stupida equazione tra soggetti Down e stupidità, e poi loro hanno questa fortuna di essere ben disponibili nei confronti degli altri, e spesso di rimanere simpatici. Spesso, come abbiamo detto, hanno anche una loro autonomia. Manca l'ultimo passo, e credo ci sia da lavorare ancora molto sui genitori. Quelli di adesso sono più pronti, più preparati. Credo si debba lavorare anche sulle loro aspettative, sulle speranze che possono rischiare di condizionare i figli. Credo si debba lavorare perché accettino senza riserve la condizione dei loro figli, senza sperare chissà che cosa. Per evitare di covare una sorta di rancore nei confronti del destino, del fato. Per evitare di sentirsi sfortunati. Per la consapevolezza che si tratta soltanto di un figlio, come tutti gli altri ma anche Down, e quindi più fragile, con un bisogno in più di essere protetto e accompagnato al mondo.





Le riflessioni di Agostino, padre di Francesco, crude, dure, ma purtroppo reali, innegabili verità, sono sempre state per me uno stimolo per cercare di fare meglio, lavorare costantemente per riuscire a coinvolgere sempre più la società, quegli umani che ancora sono legati a stupidi pregiudizi. Perché sarebbe veramente ingiusto preparare i nostri figli a vivere nel mondo, e non fare altrettanto per far sì che quel mondo sia preparato ad accoglierli. Tutto questo, però, non potremo raggiungerlo senza una corale volontà di cambiare, anche poco, seppur lentamente...quel gradino di cui parla Agostino è ancora oggi altissimo, lo so, lo sappiamo, non serve l'ipocrisia, e purtroppo episodi anche molto recenti sono lì, a ricordarcelo costantemente. E' così alto quel gradino che anch'io, a volte, ho il terrore di venire anche solo minimamente "sfiorata dal pensiero" che mai riusciremo a salirlo.

Continua...
Associazione Trisomia 21 Onlus
Chi lo legge questo libro? Persone e sindrome di Down
a cura di Emiliano Gucci
Mauro Pagliai Editore
www.at21.it

8 commenti:

  1. Visto i grandi passi che ci sono stati in questi ultimi anni, c'è da sperare che quanto prima si possa salire anche l'alto scalino.
    Per gli episodi negativi, ce ne sono sempre e tanti per tutti, specialmente per i meno forti.

    Forza con gli allenamenti che le gare si avvicinano ;-) ;-) ;-)
    Buon ferragosto!

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  2. Ciao Antonella, ti ho trovata tramite il blog di MT ed ho deciso di partecipare alla raccolta di ricette per il buffet speziale, lasciando alcuni link a Libera.
    Mi ha toccato ciò che ho letto, perchè, anche se in forma diversa, in parte mi riguarda direttamente: io sono nata nel 1962 affetta da focomelia all'avambraccio sx (assenza dal gomito in giù) ed ho passato parte della mia infanzia "nascosta" in campagna, senza frequentare l'asilo, conoscendo solo 2 bimbi miei vicini, sentendomi diversa ed avendo paura di tutto. Purtroppo mia madre mi ha sempre considerata diversa, minorata, forse si sentiva in colpa e si vergognava della sua inadeguatezza e di conseguenza del suo frutto mal riuscito. Poi è arrivato il tempo delle scuole elementari, dove sono stata inserita e dove la maestra aveva per me quell' "occhio di riguardo" che non doveva avere (pensa che non mi facevano neppure fare ginnastica a corpo libero, mentre gli altri la facevano nel parco della scuola!)e che continuava a farmi sentire diversa dagli altri. Ma la mia fortuna sono stati proprio gli altri: i bambini miei compagni (non tutti, naturalmente) che mi facevano partecipare ai loro giochi e mi hanno integrata...Poi c'è stata l'adolescenza, i primi amori, logicamente infranti, e la mia forza di volontà che cresceva, insieme al rapporto con le mie amiche. Testa dura, ho voluto imparare a fare l'uncinetto usando una mano sola e ci sono perfettamente riuscita (al di là di quanto diceva mia madre, che riteneva non potessi fare nulla di manuale), poi ho iniziato l'università , ho affrontato gli amori ( e tante persone che scappavano appena si accorgevano della mia menomazione), l'università, il lavoro e sono diventata quel che sono oggi, una donna adulta, contenta della propria vita e che, oggi, è riuscita a perdonare sua madre.
    Un bacio.

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  3. buongiorno!!! anche ferragosto se ne va.... caro Agostino i tuoi pensieri quante volte sono stati anche i miei!
    Ale è in gamba ma ciò non toglie che lo scalino è altissimo lo stesso..... proprio ieri parlando con un'amica le diceva che vorrebbe tanto un figlio ma che la mamma ha detto che sarebbe meglio di no... che dire!
    si lavora tanto per cambiare ma quanto lunga la strada...
    annas

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  4. Annas, tu sai quale sia il mio carattere, quanto cerchi, anche in determinate situazioni di sdrammatizzare, e spesso i toni di questo blog ne sono una dimostrazione. Insieme, abbiamo basato il lavoro di questi ultimi dodici anni sul "costruire senza compiangersi", ma reprimere il desiderio di maternità alle nostre figlie è un pugno allo stomaco, un dolore che quasi ogni giorno affiora e che cerco di nascondere. Se riuscissimo a preparare le nostre figlie, tanto da essere sicure che sarebbero in grado di "badare" a se stesse, potrebbero essere delle buone madri? Una domanda che non ha risposta. Almeno per adesso.

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  5. Mila, grazie per la tua testimonianza. Mi rendo conto che questo mezzo è più utile di quanto abbia mai potuto immaginare e ogni volta mi stupisco. Hai avuto tanto coraggio, e tanta forza di volontà. Grazie per aver deciso di percorrere un po' di strada insieme, tanta o poca che sia, servirà a entrambi!

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  6. almeno per adesso........ è una delle frasi che ricorrono più spesso in tutti i discorsi di noi mamme malate di amore per i nostri figli.... facciamo un passo alla volta... ma sempre con la certezza che il futuro potrebbe anche stupirci!!
    un abbraccio

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  7. Anna, sono giuste le cose che scrivi, le condivido: di episodi negativi ce ne sono sempre tanti per tutti. Ma mentre noi, spesso, abbiamo gli strumenti per affrontarli, i nostri ragazzi non li hanno, quindi dobbiamo essere noi i loro garanti, io per prima. Non starei su questo sgabello molto scomodo, credimi, che spesso non permette neppure di sedersi, di distrarsi un attimo, se non fossi convinta che per cambiare e costruire dobbiamo informare, comunicare, far conoscere, e se serve anche denunciare. Questo è il mio compito, diversamente non potrei guardare mia figlia negli occhi, la mattina.

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  8. certamente: per cambiare e costruire bisogna, come hai detto tu, informare, comunicare, far capire e denunciare...assolutamente.

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