mercoledì 31 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Laura, gioie e speranze terrene

Una madre che non è nata in Italia ma che ci vive da tempo, che qui si è sposata e ha avuto una figlia, e che forse meglio di noi, con occhi più liberi e senza alcun pregiudizio, sa leggere limiti e risorse del nostro Paese.



Laura è nata a Firenze, sedici anni fa. Nell'ospedale in cui ho partorito, probabilmente, ogni cosa che potevano sbagliare l'hanno sbagliata. Inizialmente non furono sicuri della sindrome di Down, e il giorno della nascita non mi dissero niente. Era necessario aspettare il giorno successivo, per fare gli esami e per la presenza di un pediatra più esperto. E la mattina dopo, quando portarono tutti i bimbi alle madri per l'allattamento, la mia non arrivava. Cercavano di tranquillizzarmi con delle scuse, dicendo che andava tutto bene. Andai a vederla nella nursery e la vidi tranquilla, del resto non aveva problemi particolari. Solo che a un certo punto vidi spuntare mio marito, alle sette di mattina, e proprio non capivo cosa ci facesse lì, e allora mi insospettii. Insomma i medici lo avevano convocato, la mattina prestissimo, senza anticipargli niente, così come ancora non avevano detto niente a me.

Ci riunimmo tutti assieme e a quel punto ce lo dissero. Sinceramente di quei precisi momenti non ricordo niente, buio totale. Ricordo solo che facevano riferimento alla Germania, visto che io sono tedesca, per dirci che là sono molto più organizzati. Era chiaro dove volessero arrivare, anche se non aveva senso, visto che eravamo in Italia e vivevamo a Firenze ormai da molto tempo.

Inizialmente non volevano neanche farmi provare ad allattarla, perché resiste questa convinzione per cui i nostri bambini non riescano a tirare il latte da soli. Mi dissero di non preoccuparmi, che glielo avremmo dato con il biberon. Nei giorni successivi la mia cognata mi convinse a provare, e così feci, insistendo con i medici perché mi lasciassero fare perlomeno un tentativo con la mia bambina. Rimasero tutti allibiti. Credo che Laura abbia preso il triplo del latte che riesce a prendere mediamente un bimbo "normale". E' stata quindi allattata come tutti gli altri bambini, e la speranza è che la cosa sia servita, per le future esperiienze di maternità, in quell'ospedale.

Un'altra cosa che ci fece rimanere molto male furono le parole dell'ostetrica, che tra l'altro era una professionista d'esperienza. Nel tentativo di rincuorarmi, forse, mi disse di non preoccuparmi, che avrei potuto fare presto un altro bambino, del resto i bimbi Down apprezzano molto i fratellini. Come se questo potesse essermi di conforto, mentre in quei giorni a tutto pensavo fuorché ad avere un altro figlio. La mia bambina era Laura, era lì. Ecco, di quei giorni ricordo soprattutto queste cose qui. Perché poi per fortuna con Laura tutto è andato bene, a partire dall'inserimento all'asilo nido, la scuola materna, sempre coccolata, fino ad adesso che va alle superiori. Si è sempre integrata benissimo e ha sempre incontrato persone fantastiche, sinceramente non posso lamentarmi. E poi un secondo figlio lo abbiamo comunque voluto, ma quando lei era più grande, già inserita, quando di certo era stata seguita meglio, e sono sicura che sia stato più positivo così. Ma sono quelle frasi lì, quelle sentenze in apparenza leggere, magari dette in buonafede, che però nel profondo feriscono.

Ne ricordo un'altra, di quando Laura aveva circa tre mesi e sentivamo il bisogno di conoscere altri genitori che vivevano la nostra stessa esperienza. Incontrammo una famiglia con un bambino Down, persone molto gentili e accoglienti, deliziose, e ricordo che dissero che la nascita della mia bambina, così com'era, era una "benedizione di Dio". Sinceramente fu una considerazione difficile da capire e apprezzare, per me, con in braccio la piccoletta per cui ancora non potevo sapere come sarebbe stata la vita, in futuro, così come non potevo immaginare come sarebbe stata la nostra.
Chiesi se esistessero gruppi di genitori con figli piccoli, che magari ogni tanto si ritrovassero per scambiarsi informazioni, esperienze, consigli, ma purtroppo mi dissero che non c'era niente del genere. Ma erano queste le cose di cui sentivamo il bisogno. Cose vere, pratiche, utili alla vita di tutti i giorni, non benedizioni. Ricordo che non fui molto felice di quell'incontro, sarei stata molto più contenta di conoscere famiglie, anche con figli di età diverse, che potessero confrontarsi e capire che in fin dei conti non tutti i bimbi sono uguali ma che un giorno possono comunque diventare amici, condividere delle cose, o anche solo prendere un autobus da soli e andare a mangiare una pizza insieme.

La mia ginecologa mi dette il numero di telefono dell'Associazione, ma a quei tempi non c'era praticamente niente, solo una segreteria telefonica. Dopo un po' mi scoraggiai e non chiamai più. Per puro caso la mia ostetrica aveva seguito da poco un'altra mamma abbastanza giovane che aveva avuto un bambino con sindrome di Down, così mi dette il suo numero e ci mettemmo in contatto. Eravamo tutte e due inesperte, suo figlio aveva sei mesi più della mia, però fu utile per un confronto, per dei consigli. E comunque il Meyer c'era, la consulenza genetica c'era, chi ti informava per una cose e chi per un'altra: si procedeva un po' per sentito dire, ecco, mancava un riferimento come è l'Associazione adesso, che può seguire il bambino e la famiglia nelle varie fasi della crescita. E anche per tutte le prassi burocratiche, le cose che uno ha bisogno di chiedere. Non c'era niente. Si andava, appunto, un po' a "sentito dire". Ed era possibile per persone come noi, magari, che facilmente possiamo muoverci, che possiamo leggere e informarci da soli, ma immagino le difficoltà di chi invece non ha certe possibilità. Prendiamo l'esempio della logopedia, che Laura ha cominciato prestissimo soltanto perché noi avevamo letto, sapevamo dell'utilità, e allora ho insistito e siamo riusciti, fin da quando aveva un anno e mezzo, a iniziare anche un piano di psicomotricità, cose non affatto scontate in quel periodo.

Ci siamo poi riavvicinati all'Associazione, Laura ha fatto qui il corso di autonomia e si è subito integrata benissimo, ha trovato nuovi amici e questo è molto importante, specie dopo le scuole medie quando il gruppo della classe appunto si divide, e certe amicizie si disperdono un po'. E' sempre stata una mia convinzione quella di cercare altre famiglie che avessero figli con lo stesso problema, mentre ho notato che qui non si fa molto, perché se il bambino sta bene e tutto procede regolarmente è difficile che ci si preoccupi di fare nuove amicizie. Mi sembra invece molto importante per quando i bimbi cresceranno, se avranno un loro giro, un loro gruppo.

In merito invece a quel discorso per cui in Germania avrebbero dovuto essere più organizzati per affrontare certe problematiche, ho scoperto che questa non è una verità assoluta. Anzi, che per certi versi, come altre persone mi hanno detto, è una fortuna che Laura sia cresciuta in Italia.
In Germania sono all'avanguardia per moltissime cose, specie per le strutture, gli ospedali pediatrici sono molto belli e organizzati, e così i servizi alla persona. Per quanto riguarda l'integrazione scolastica è invece l'Italia a essere all'avanguardia. Tuttora in Germania non tutti i bambini disabili possono "automaticamente" frequentare qualsiasi scuola, e questo vale a partire dall'asilo nido. Ci sono delle scuole apposite, specifiche, o delle classi integrative, e non sempre si trovano dietro l'angolo. I genitori ancora si battono per avere un modello d'integrazione come il nostro. Addirittura ci sono delle regioni in cui l'integrazione è più sviluppata rispetto ad altre. Per esempio in Bavaria, una regione più cattolica, l'integrazione è meno avanzata e ci sono famiglie che si sono dovute trasferire, hanno dovuto cambiare casa e lavoro per avvicinarsi a una scuola che poteva "ospitare" il loro bambino.
Riconosco che per noi è andata benissimo così perché Laura si è sempre integrata bene, magari famiglie in altre situazioni si troverebbero meglio se affidate a strutture specifiche, in cui i ragazzi sono seguiti più assiduamente. Ma è indubbio che sul fronte dell'integrazione, per quello che poi i bambini dovranno affrontare fuori dalle mura del complesso scolastico, il modello italiano funziona meglio.










Laura adesso ha terminato il suo percorso di autonomia, ha nuovi amici, ha superato la timidezza che molte volte la caratterizzava, è serena e si accinge ad affrontare altri traguardi.
Ricordo che la mamma di Laura accolse con molta esitazione la richiesta di raccontarsi, quasi per una sorta di pudore ad esprimere ciò che lei, in quel momento, pensava riguardo alle esperienze vissute e alla sua concezione "terrena" delle speranze per il futuro di sua figlia. Credo invece che questa testimonianza, sia proprio quella che ci dà la possibilità di misurare la capacità di accogliere, quello che un'associazione laica come la nostra deve riuscire a fare, nel rispetto di tutte le convinzioni politiche, religiose, delle appartenenze sociali e delle provenienze etniche. Ci dimostra quanto sia importante, in questo luogo, in questa sede, occuparsi della persona e del suo progetto di vita, terrena, appunto. Quello che di bello e profondo ognuno di noi porta dentro, ciò che muove ogni giorno i nostri passi, sia essa fede o altro, trasparirà comunque, magari con lo stesso pudore della mamma di Laura.


Continua...


Associazione Trisomia 21 Onlus
Chi lo legge questo libro? Persone e sindrome di Down
a cura di Emiliano Gucci
Mauro Pagliai Editore


lunedì 29 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Tutto per Othmane

Per Othmane e per la sua famiglia i problemi della sindrome di Down, specie quelli relativi all'integrazione, sembrano amplificarsi in nome di altre presunte "diversità". E' suo fratello Abib, che molto si occupa di lui e che tra l'altro parla in maniera impeccabile la nostra lingua, a raccontarci fatiche e risvolti della loro vita.

Mio fratello Othmane ha due anni, è nato qui, poco dopo che siamo venuti a vivere a Firenze. E' italiano vero, lui, noi ci scherziamo perché in famiglia siamo tutti marocchini. E' l'ultimo dei miei fratelli, è arrivato un po' come una sorpresa, non lo aspettavamo, è stata una sorpresa bellissima.
Io mi chiamo Abib, ho diciassette anni e praticamente mi occupo in tutto e per tutto di mio fratello minore. Già dal primo mese, quando è rimasto in ospedale, andavo continuamente a trovarlo, stavo sempre con lui, mi preoccupavo dei suoi problemi e di quelli di mamma.
Nella nostra famiglia mai nessuno aveva avuto conoscenza della sindrome di Down, anche perché in Marocco non funziona come qui. Persone Down le vedevo ma non si diceva niente di preciso in proposito, solo che erano malate, e basta, non si sapeva niente. Adesso aspettiamo per Othmane un intervento al cuore che dovrebbe risolvere un problema che ha dalla nascita, un buco che all'inizio sembrava gravissimo, non risolvibile. Ecco non ho mai sentito, mai visto in Marocco un ragazzo che è stato operato al cuore per una cosa così, come farà Othmane.
Noi siamo di un paese di campagna, lì quando nasce un bambino il giorno dopo lo mandano a casa, qualsiasi siano le sue condizioni e quelle della mamma, non fanno certo tutti i controlli che fanno qui. Alcune persone continuano a far nascere i bambini in casa, e in quel caso non c'è neanche il dottore ad assistere, viene una donna che aiuta per il parto e basta. Non c'è paragone fra quella realtà e questa.
Il primo anno che è nato Othmane ho rischiato di bocciare a scuola, per tutte le assenze che ho fatto. Alla fine mi sono impegnato molto, ho seguito i corsi per recuperare e sono passato con distinto. Othmane faceva molti controlli e c'erano molte cose da fare, stavo sempre dietro a lui. Adesso aspettiamo un nuovo controllo e poi l'operazione al cuore, ci auguriamo che così perlomeno quel problema si risolva del tutto.
A me per Othmane dispiace tanto. E l'unica cosa che posso fare è tutto, cioè fare tutto il possibile, tutto ciò di cui c'è bisogno per lui. Studio per meccanico, vado a scuola di pomeriggio così la mattina posso seguire tutte le cose burocratiche, non solo per lui ma anche per la famiglia visto che mio padre lavora, mia madre non parla bene italiano, mio fratello più grande è sposato e quindi non vive più in casa con noi. Per esempio ora mio padre ha avuto dei problemi con il lavoro, c'erano da seguire delle cose che riguardavano lo stipendio e la busta paga, c'era da andare dai sindacati e ci sono andato io. Sono tante, le cose da fare. Abbiamo anche chiesto la cittadinanza per Othmane ma non la vogliono dare. Adesso andrò anche da un avvocato per questa cosa, non capisco perché sia così, noi siamo regolari con carta di soggiorno e mio fratello è nato qui, è italiano: anche per avere la pensione che gli spetta, ottenere la cittadinanza per lui sarebbe molto importante. Invece ci dicono che non l'avrà finché non la prenderà mio padre, ma servono dieci anni di soggiorno per ottenerla. Ci hanno detto anche che avremmo dovuto chiederla subito, quando Othmane è nato, ma in quei giorni purtroppo i problemi erano altri, avevamo altre cose da pensare. Se ti dicono che tuo figlio è nato con la sindrome di Down, e che ha un grave problema al cuore, non è che immediatamente ti preoccupi della cittadinanza, pensi prima alla sua salute.
Poi nella mia famiglia i problemi sono anche altri. Mio padre adesso ha tre figli a carico, perché ho anche una sorella. Mia madre non lavora, e non è facile, abbiamo anche l'affitto da pagare, ed è caro. Abbiamo fatto domanda per la casa, al comune, ho preparato tutti i documenti ma sembra che non ci sia niente da fare, ci hanno messo nella fascia B, quindi per il momento non se ne parla. In questo senso un aiuto vero non c'è. Io studierò fino al 2011, se tutto va bene, poi potrò trovare un lavoro anche per aiutare la famiglia. Noi ovviamente vogliamo restare in Italia, è anche meglio per Othmane, di certo qui può essere seguito bene. Non posso neanche immaginare cosa gli sarebbe successo se fosse nato o andasse a vivere in Marocco. In questo senso ci è andata molto bene, credo che il Meyer sia uno degli ospedali migliori in Italia, così Careggi. Abbiamo sempre trovato persone in gamba, che si danno da fare. Ci hanno messo poi in contatto con l'Associazione e Othmane ha già cominciato a frequentarla, e a fare attività. Il problema è che fuori dalle strutture l'unico vero aiuto lo dà la famiglia, perché non c'è altro. Anche per questo mia mamma non può andare a lavoro, né può studiare la lingua italiana. Aveva cominciato un po' prima che nascesse Othmane, ma adesso è quasi impossibile, deve stare sempre con lui.

Per me Othmane è bellissimo. Io posso rinunciare a tutto per lui, faccio qualsiasi cosa per lui. Tra l'altro ci assomigliamo tantissimo. Mia mamma ha unito insieme una foto mia, di quando ero piccolo, a una foto di Othmane, e praticamente siamo identici. Othmane ha dei capelli bellissimi, e quando lo dico a mia madre dice che anch'io li avevo uguali, proprio come i suoi. Ci assomigliamo molto, forse anche questo ci lega un po' di più. Lui non ha affatto i tratti della sindrome di Down, vedendolo non ci si accorge di niente. E poi è buonissimo, è tranquillo. Quando era piccolo ero terrorizzato per colpa di una vecchia esperienza, in Marocco, quando per studiare ero andato a vivere a casa di alcuni parenti che avevano un figlio piccolo che non ci faceva dormire mai. Aveva due anni, quanti ne ha Othmane adesso. Piangeva tutta la notte, sempre, di continuo, non potevo mai riposare e poi studiare diventava impossibile, anche perché dovevo farlo di giorno, visto che si stava in campagna e non c'era corrente elettrica. Non avevo un computer, niente. Studiavo solo un po' appena tornato dalla scuola, nei due pomeriggi quando non avevo il tempo pieno, poi basta. Era difficile. Così temevo succedesse lo stesso con Othmane, che invece ci ha sempre lasciato dormire. Addirittura quando era un po' più piccolo si addormentava presto, la sera, fino alle sette, e poi dormiva fino alla mattina dopo.

Il prossimo anno comincerà ad andare all'asilo, abbiamo già fatto l'iscrizione. Speriamo vada bene, così inizierà a stare con gli altri bambini, è una cosa molto importante. Anche per me quando sono arrivato qua non è stato facile farmi subito degli amici, all'inizio sono stato molto isolato. Ho trovato una bella scuola, questo sì, e ho ripreso dalle medie, sono arrivato a metà dell'anno scolastico e poi ho ricominciato dalla prima. Questo mi ha aiutato molto per imparare la lingua, perché la maggior parte delle ore erano di italiano. Però all'inizio non mi inserivo. Il primo anno mi facevano il mobbing, hai presente? Non riuscivo proprio a dialogare con gli altri. Mio padre mi accompagnava fino alla porta, mi lasciava e già cominciavano a prendermi in giro. Non riuscivo a comunicare, a legare con le persone. Stavo solo con una ragazza che aveva lo stesso problema di Othmane, che ancora però non era nato, quindi non ne sapevo niente, ma neanche i miei compagni conoscevano bene il suo problema. Stavo con lei proprio perché era messa da parte, come me, e come me riusciva anche a seguire peggio il programma, non era brava come gli altri. Però più che mi vedevano stare con lei, più che mi prendevano in giro. Era difficile. Poi mi sono scocciato e ho cominciato a reagire. Il secondo anno tutto è cambiato, ho cominciato a frequentare anche ragazzi italiani, non solo marocchini, ho cominciato ad andare alle loro feste, tutto più normale. Adesso va bene, anzi alcuni dei ragazzi che mi odiavano sono diventati amici più di altri. Ho una bella ragazza, italiana, peccato che ho pochissimo tempo per vederla, non faccio in tempo ad arrivare a casa e lasciare questa cartella che devo prendere lo zaino per andare a scuola, e via così. Però lo ripeto, per Othmane anche questo, io per lui ci sarò sempre. Posso anche perdere la scuola, perdere il lavoro, perdere tutto, ma perdere Othmane no, mai.

Continua...

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Chi lo legge questo libro? Persone e sindrome di Down
a cura di Emiliano Gucci
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venerdì 26 agosto 2011

E' sciocco? Saluti dalla Maremma Inte...Grata

Ero venuta qua per cercare ricette nuove per i post del venerdì, e invece mi sono ritrovata a saltare di pino in pino,

se volevo mangiare...



Perché? Per aiutare Nettuno a cercare una Sirena! Ma di Sirene nessuna traccia.



...Niente, e pensare che di pesci ce n'erano proprio tanti...mi ha fatto verde, e non sarebbe stato nulla se non avessi rischiato di confondermi con le chiome degli alberi!


Non ne posso più!


Salta salta, il tempo è trascorso, è già ora di andare, di lasciare questa bella terra ancora per certi versi incontaminata. La Maremma (dallo spagnolo marismas - padule) è una terra antica, era la Maremma "amara": un'ampia distesa paludosa quasi disabitata, una terra "arsa dalla febbre e dal sole". La rinascita della Maremma è storia recente: a partire dall'Ottocento la bonifica ha risanato le terre, è scomparsa la malaria e si è avviato il ripopolamento. Questo singolare percorso storico ha fatto sì che oggi la Maremma sia miracolosamente una terra ancora intatta: un unico grande affresco contrappunto da straordinarie bellezze naturali e preziosi resti di una storia millenaria...
e la Maremma ci saluta così...



mentre lui, l'instancabile Nettuno lo fa così...



...e così...


Casarecce al ragù di pesce spada



Dosi per 4 persone:
400 gr. di casarecce siciliane
un trancio di pesce spada di gr. 200
800 gr. di pomodori ciliegini
150 gr. di olive verdi snocciolate
4 filetti d'acciuga sott'olio
uno spicchio d'aglio
1/2 bicchiere di vino bianco
prezzemolo
olio
sale
peperoncino

Elimiare la pelle dal pesce spada e tagliare la polpa a dadi. Rosolare in padella con poco olio e aglio, che poi toglierete.
Aggiungere i filetti di acciughe attendendo che si disfacciano. Aggiungere i pomodorini tagliati a metà e le olive tagliate a metà, finire di cuocere con vino bianco. Saltare la pasta aggiungendo peperoncino e prezzemolo.




Chi è quello?



E' Nettuno, si sta allenando...a ottobre farà un "salto" in Australia! Beh, lasciamolo andare, magari sarà la volta buona, casomai lancio un appello: S irene di tutto il mondo, vi capitasse di vederlo, acchiappatelo...se vi riesce!
Tanto ritorna...eh, se ritorna...ritorna, ritorna, come la "ribollita" diceva la mi'nonna!

Scusate, forse ho peccato un po' di esibizionismo, ma chi, rientrando dalle vacanze, non ha piacere di mostrare le proprie foto agli amici?

Per quanto mi riguarda torno  nella mia giungla, non vedo l'ora di riabbracciare tutti i ragazzi "Speziali" cuochi e non cuochi, mi sono mancati tanto...

mercoledì 24 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Antonella, regalo dell'adozione

Un'esperienza, un percorso, una voce ancora diversa: quella di una famiglia che ha deciso di adottare una figlia così "particolare". Con qualche difficoltà, e molte belle sorprese.

Antonella

E' così profondo e viscerale l'amore che ci unisce a questa nostra figlia, che a volte mi sorprende pensare che non è nata dalla mia carne, ma che ci è stata donata attraverso l'adozione. E' come se l'esperienza dell'adozione si fosse conclusa dentro di noi, esaurendosi come accade al seme che si trasforma in pianta.
Antonella è stata "inglobata" nella nostra famiglia quattordici anni fa, aveva pochi mesi di vita, la faccia tonda ed i tratti della Trisomia.
Eravamo riusciti, dopo mille tentennamenti, ad aprirci alla fantasia di Dio, che non ha briglie, che a volte sconcerta. Ci eravamo buttati in avanti, su di una strada che proprio non corrispondeva al nostro piccolo progetto umano, accettando che Antonella sconvolgesse i nostri piani.

Questa piccoletta sembrava non possedesse nulla, ma portava con sé tutta la provvidenza di Dio, come credo che sia per ogni figlio disabile. Siamo diventati la sua famiglia, rumorosa e stimolante. E lei, aprendosi alla  vita, ci ha rivelato poco a poco la sua natura solare, la vitalità della sua mente tanto limitata quanto combattiva.

E' proprio lei che sa ricondurci alla serenità di ciò che è essenziale, quando ci perdiamo nell'affanno delle cose. E' lei che sa regalarci uno sguardo semplice, quando l'abbiamo smarrito per strada.
Le difficoltà che la sua sindrome si porta dietro, le patologie piccole e grandi che vi sono collegate, sono un carico a volte pesante, sul quale dobbiamo modellarci di volta in volta, ridisegnando la rotta di navigazione quando è necessario.
E' una strada faticosa, in una società che spesso a parole accoglie, ma con i fatti tiene a distanza chi è diverso. Per questo è stato fondamentale imparare a non isolarci, facendo riferimento alla nostra Associazione, ad altri genitori, alle strutture pubbliche che offrono supporto: per sdrammatizzare, per non trovarci oppressi. Legando la nostra vita a quella di Antonella non avevamo considerato come importante sarebbe divenuto questo bisogno di relazione con il mondo esterno. Lei stessa, poi, con la sua natura estroversa, è sempre proiettata verso gli altri, e molto spesso è necessario lasciarci trascinare. Così, un po' per volta, ci siamo ritrovati a intessere relazioni sociali ovunque ci si trovi: nel nostro quartiere, nel condominio, in vacanza, negli ambulatori, in autobus. E' stata come una terapia, per noi così riservati e impacciati: imparare a guardare con simpatia chi accetta l'approccio di Antonella ed impegnarci a mediare con delicatezza questi incontri con persone nuove, facendoci interpreti del suo linguaggio non sempre comprensibile.
Antonella ci ha "educati", in questi anni, ad abbandonare l'atteggiamento rigido del pregiudizio. Spesso il suo modo di fare, simpatico e sorridente, provoca una risposta di accoglienza anche in persone apparentemente scostanti. Così a volte è accaduto che, spinti da lei, abbiamo stretto relazione proprio con chi avremmo escluso.

Il cammino in sua compagnia è pieno di sorprese, chissà quale altra "trasformazione" ci aspetta dietro l'angolo. Adesso si apre il capitolo dell'adolescenza, e ci accorgiamo che un po' per giorno lei comincia a "sganciarsi" da noi: sta imparando ad affermare la sua volontà, a scegliere in prima persona, è talvolta lei che ci spinge con decisione laddove vuole arrivare.
E' buffo: questo momento di distacco che malvolentieri accettiamo negli altri figli, è nel suo caso desiderato e atteso come non mai. Dove ci porterà?


Protagonista assoluta



Antonella e Laura in scena!


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lunedì 22 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Andrea, il dono immenso della vita.

E' una dura particolarità quella di Andrea. Per lui, per i suoi genitori, in un certo periodo la sindrome di Down passa in secondo piano al cospetto di una problematica ancora più allarmante. Soffre, fa soffrire, blocca il respiro di chi ascolta e le dita di chi scrive, forse anche gli occhi di chi legge. E' però una meravigliosa particolarità quella di Andrea. Per lui, per i suoi genitori, ogni momento della vita , adesso, sembra carico di una forza e di una gioia impensabili per la maggioranza delle persone che vantano un'esistenza "normale". Il racconto di sua madre parla di cambiamento e di scoperta, di crescita e di fede, ma scavalca ogni razionalità, ogni religione, sembra voler rendere a tutte le cose della nostra vita il valore che meritano, e che hanno. Così come piace fare ad Andrea.


Quando è nato Andrea, diciotto anni fa, il suo fratellino più grande aveva già sei anni. Come tutte le famiglie che attendono il secondo figlio eravamo in trepidante attesa, avevamo fatto tutti i nostri programmi, progetti su progetti. Eppure dentro di me c'era qualcosa che non quadrava. In qualche modo sentivo che qualcosa non stava andando bene. Ero agitata, non ero serena e tranquilla come per la prima gravidanza. Io che ero comunque molto credente, molto attaccata a Gesù, ogni volta che andavo in maternità per un controllo o per qualsiasi cosa, il luogo in cui mi fermavo sempre, e piangevo a dirotto, era in chiesa. Era strana, questa cosa. La chiesa mi richiamava, sempre, e mi sembrava assurdo sentirlo in maniera così forte. Non mi era accaduto mai, mai l'avevo frequentata con tanta sistematicità. Insomma per me c'era qualcosa di anomalo, qualcosa che non tornava.

Poi Andrea è nato, dopo un'incredibile corsa all'ospedale, mio marito che è arrivato all'ultimo momento e ha vissuto solo l'ultima fase del parto e io tranquilla e serena, perché quando mi hanno messo Andrea sulla pancia era bellissimo e basta.
Lì per lì non mi sono accorta di niente, ma la tranquillità è durata un momento. Già negli occhi di mio marito, nella sua espressione, vidi che aveva notato qualcosa che non andava, anche se non riusciva a dirmi niente.
Fu lui il primo ad avere la conferma, più tardi, quando portarono via Andrea per fargli tutti i test e gli accertamenti del caso. Mi riferì che c'era qualche problemino senza ancora parlarmi di sindrome di Down. Me lo dissero più tardi, quando mi riportarono il bambino, e la mia prima  domanda fu cosa volesse dire veramente, "Down", perché soltanto in certi momenti ti rendi conto di quanto poco sappiamo di certe realtà.

E' buffo, ripensandoci adesso. Mi ricordo che pochi mesi prima del parto avevo visto quel film, Rain Man, quello con Cruise e Hoffman, in cui a un certo punto compare un ragazzo Down. Mi voltai verso mio marito e scherzando gli dissi "Non sarà mica così, nostro figlio, vero?". Lui disse di no, e scherzò con me. Non vuol dire niente ma col senno di poi ripensi all'episodio come a un messaggio, una specie di segnale. Perché mi venne di fargli quella domanda?

Mio marito dopo il parto fu di una grandezza incredibile, e pronunciò la frase che poi ha racchiuso un po' il senso di tutta la mia vita, e che suonava più o meno così: "Non preoccuparti, Gesù ci ha dato Andrea e saprà aiutarci in questo cammino, insieme."
Così è stato.
La cosa che mi faceva più male, in quei momenti, tra la speranza delle sue parole e lo sconforto che a tratti inevitabilmente prende, erano gli sguardi delle infermiere, quando mi portavano Andrea e lo lasciavano con me. Restavano lì a guardarmi, a guardarci, a cercare se nei miei occhi, che sono un po' più assottigliati, a mandorla, potessero esserci dei tratti di somiglianza con quelli di mio figlio. Atteggiamenti che mi laceravano, perché comunque per me Andrea era bello, a prescindere dal taglio dei suoi occhi. Era eccezionale, era comunque Andrea, era il mio bambino e basta. Il giorno che andai a prenderlo per portarmelo a casa l'infermiera mi disse che se non ce la sentivamo potevamo anche lasciarlo lì.
Ci disse proprio questo: "Se volete, lasciatelo. Tante altre persone fanno così."
Ci guardammo, io e mio marito, convinti di voler andare via subito da quel posto, con nostro figlio al seguito, ovviamente, perché certe cose non le volevamo neanche ascoltare. E avevamo comunque la sensazione che anche loro volessero mandarci via, e di fretta, perché il fatto che Andrea non avesse appunto gli occhi come gli altri, e fosse diverso, sembrava che disturbasse, che non si dovesse far vedere. Una cosa che percepimmo anche dopo, nei giorni in cui andavamo al reparto genetica per gli esami nostri e del bambino: l'impressione che sempre ci facessero passare quando c'era poca gente, quando non davamo nell'occhio. L'idea che fossimo in qualche modo da nascondere, da occultare. Con la certezza che il disagio per la nostra presenza stesse negli altri, di certo non in noi. E questi sono i traumi che ti porti dietro per sempre.

Fuori dall'ospedale ho incontrato le prime persone che mi hanno poi aiutato nel percorso, rassicurandomi che con Andrea avrei dovuto fare quello che si fa con tutti i bambini, che con un po' di pazienza in più sarebbe andato tutto per il verso giusto. Devo riconoscere che molti passaggi di quei mesi,  anche i più difficili, i più duri, quasi non me li ricordo più, sinceramente, forse perché adesso vivo tutto con una serenità diversa, di certo acquisita con questo percorso. Io timida, io timorosa, insomma io con il carattere che ho, mi sono ritrovata con Andrea a superarmi e a essere quello che sono, di certo contenta di vivere, adesso, così. Andrea mi ha fatto crescere, conoscere, diventare combattiva come in effetti prima non lo ero mai stata.

Vennero i primi mesi, le prime difficoltà per come affrontare la cosa con le persone che ci circondavano, le nostre famiglie e soprattutto il suo fratellino più grande: vedeva che c'era una diversità in Andrea, ma come dovevamo spiegargliela? Abbiamo cercato di farlo con naturalezza, con semplicità, guidati dalle stesse parole con cui fin dal principio mio marito ha supportato me. E quindi via con le varie pratiche che si fanno con tutti i bambini nei primi tempi, e via con i massaggini, la ginnastica, l'attività motoria, la psicomotricità, via con diverse attività che avevano anche la dimensione del gioco, della normalità. Prendemmo già dei contatti con l'Associazione e incontrammo grande disponibilità, ma inizialmente non ci legammo molto. La verità è che io non ero pronta. Ero convinta che non ci servisse un supporto esterno, che non ne avessimo bisogno, che potessimo fare da soli. Di certo c'era una mia sbagliata presunzione in questo, e il fatto era che forse, anzi sicuramente, prima dovevo conoscere io. Adesso so che non si può far da soli, so che è impensabile.

Via i primi mesi quindi, e vai con il primo vaccino. E subito, senza tregua, ci crollò di nuovo il mondo addosso.
Si trattava di un vaccino comune, trivalente più pertosse. E da quel vaccino lì, anche se la cosa non è mai stata ammessa fino in fondo, in Andrea si scatenò un'epilessia. Anzi, prima una piccola febbre, e poi alcune scosse, strane, che notai subito. Andammo al volo dal pediatra, che al volo ci mandò al Meyer, e fatto il primo encefalogramma si notò questa sua attività parossistica del cervello. Era collegata alla sindrome di West, che colpisce il sistema nervoso centrale, e di coseguenza motorio. In soggetti come Andrea, laddove il sistema motorio è già precario, le conseguenze sono ovviamente più drammatiche. In pratica , da quel momento, lui ha vegetato. Per un anno. Con delle crisi fortissime. Degli attacchi, dei momenti in cui sembrava prendesse delle martellate sulla testa e precipitava continuamente in avanti, con il corpo. Spasmi, molto violenti, in flessione e in estensione. Non potevamo tenerlo da nessuna parte, non potevamo abbandonarlo mai.
Nel frattempo, altri bambini erano stati ricoverati in ospedale con la sindrome di West. E le speranze che ci dettero i medici erano al ribasso, anzi il persistere della sindrome poteva anche fare dei danni permanenti, come bloccare completamente l'attività motoria di Andrea.
Abbiamo festeggiato il suo primo compleanno sostenendogli il viso, per evitare che in qualsiasi istante potesse precipitargli la testa sulla candelina. Sembra atroce, eppure anche in quei momenti, quando non era vittima delle sue crisi, gli occhi di Andrea esprimevano una gioia incredibile. Anzi esprimevano tutto, esprimevano la vita, qualsiasi cosa.

Fu un anno imbottito di medicine. Andavamo a coprarle a Roma, perché alcuni farmaci specifici, nuovi, si vendevano soltanto in Città del Vaticano, oppure in Svizzera. Siamo stati ricoverati molto spesso in ospedale. Siamo andati fino in Francia per parlare con uno specialista che ci disse che Andrea si sarebbe potuto portare addosso quei sintomi per sempre. Gli abbiamo dato anche dei barbiturici. Andrea era sedato, intontito dalle cure. Ricordo che gli cantavo continuamente delle canzoncine, gli parlavo senza capire se parlassi al vento, o se qualcosa recepisse. Abbiamo tentato poi una cura a base di cortisonici, l'unica che sembrava potesse diminuire gli spasmi di Andrea. Quarantacinque giorni in ospedale, esami su esami, ossigeno, terapia, ma come hanno cominciato a scalargli il dosaggio ad Andrea sono venute le convulsioni cianotiche. Insomma, fu come vederlo morire due volte prima vegetale, poi quasi morto per davvvero.

Invece Andrea ne è uscito vivo, ma vivo veramente.
E abbiamo poi scoperto che le mie canzioncine, le mie parole, le sentiva eccome. Che non ha subito lesioni permanenti, anche se la sindrome aveva colpito più la parte frontale del cervello, ritardando la verbalizzazione, il linguaggio. Si è arrestata, la sindrome, anche se Andrea resta un soggetto epilettico. In quel periodo viaggiavamo sempre con le bombole di ossigeno appresso perché non sapevamo quando potesse prendergli una crisi. Eppure, certi che ce l'avremmo fatta, facevamo tutte le cose normali che dovevamo fare, anche le vacanze, andavamo anche in montagna per non trascurare l'altro fratello. Siamo stati a sciare, con gli amici, in funivia con appresso le bombole d'ossigeno e le sonde pronte per intervenire, in caso di emergenza. Non sentivamo queste cose come un peso ma come la normalità, cioè come normalmente sentiamo quello che c'è da fare per i nostri figli.

Quando Andrea ha cominciato a prendere meno medicine ha iniziato anche a far vedere la grande gioia che ha dentro. Ha tirato fuori una bellezza  che commuove, continuamente, me e chi gli sta accanto. Ha una sensibilità e una gioia che sorprende, è un dono che trasmette, che non ci limita ma anzi ci spinge sempre più in avanti, oltre l'apparenza delle cose. Adesso che parla un po' di più e che con i gesti, con gli occhi e con il volto riesce comunque a comunicare sempre, spesso è lui a sconvolgermi e confortarmi. Nonostante le difficoltà che può incontrare, Andrea ha qualcosa di più grande, dentro.
Con lui abbiamo imparato quello che davvero vuol dire ascoltare un figlio. Ascoltarlo non per quello che vorremmo sentirci dire, come spesso facciamo da bravi genitori. Ascoltarlo non per quello che vorremmo mettergli in bocca, perché con lui sarebbe impossibile, proprio per la sua difficoltà nell'esprimersi, per la sua forza che invece gli muove da dentro. Andrea ti costringe a sentirlo per quello che realmente è. Ti costringe a fermarti, a ragionarci sopra, a interpretarlo, a capirlo per davvero, a considerarlo per quello che veramente dice. A considerarci per quello che realmente siamo, a essere noi stessi. Ed è una grande conquista.

Ha cominciato a camminare a quasi quattro anni, ha detto la prima parola, "mamma", a cinque. Ha comunque frequentato l'asilo nido, la scuola materna, poi le elementari, le medie. E qui, nel bisogno di altro che sentivamo per Andrea, fuori dalla scuola e dai gruppi, dalle amicizie che potevamo frequentare, è tornata in ballo l'Associazione. Ci siamo riavvicinati e abbiamo incontrato un modo diverso di fare associazione, una linea nuova, un modo di guardare ai ragazzi nella totalità delle loro esigenze, dai bisogni dei più piccoli a quelli dei più grandi. Una maniera di accogliere diversa, forse anche per me che finalmente ero cambiata, pronta per un percorso insieme, per lo scambio di esperienze e per il confronto. Non si può fare da soli, questo lo abbiamo imparato. E' soltanto così che possiamo far crescere i nostri figli, così che si integrano e così che si lotta per farli stare al meglio nella società.

Perché fuori il mondo è questo, avanzato, ma sempre impreparato. Allora può succedere che ti adegui, ti limiti e finisci per vivere al ribasso. Ecco, con Andrea questo non è possibile. Con Andrea non si può vivere al ribasso, si deve vivere al rialzo. Lui ha questo amore per la vita, questa passione potente, che ti scuote ogni giorno. Lui si supera ogni volta, per comunicare, per vivere a pieno questa meravigliosa vita qua. Lui non si ferma davanti ai suoi limiti. Mai. Va oltre. Noi spesso ci fermiamo, e forse anche per questo avemmo molto da imparare da lui. 













Emiliano Gucci, nella sua introduzione, ha saputo cogliere l'essenziale, il senso del messaggio. Ogni ulteriore commento sarebbe superfluo. E' già tutto lì.
Ho incrociato Anna sul mio cammino più o meno sette anni fa. Anna per me, adesso, non è solo la mamma di Andrea, è molto di più. E Andrea è veramente il dono immenso della vita, il suo sorriso è la risposta a quelle domande che a volte ci rivolgiamo quando ci assalgono i "dubbi" sulla loro felicità. Io non ho "dubbi" sulla loro felicità e non perché siano "incapaci d'intendere", ma perché hanno veramente insito in loro quell' amore per la vita che permette di superare gli ostacoli e di viverla a pieno.
Capita purtroppo a volte che qualcuno spenga il loro, il nostro sorriso. E' quel "qualcuno" che non comprende e allo stesso tempo giudica, fermandosi davanti a quei limiti, senza riuscire a vedere l'immensa bellezza che c'è oltre.

Associazione Trisomia 21 Onlus
Chi lo legge questo libro? Persone e sindrome di Down
a cura di Emiliano Gucci
Mauro Pagliai Editore

venerdì 19 agosto 2011

E' sciocco? Speriamo di no, Maremma Maremma.

Visto che è ancora tempo di vacanze, che ancora qui non è rientrato nessuno, che sono sola senza i miei ragazzi, e per giunta, senza i "cuochi speziali",



ho chiesto anche oggi a Nettuno di cucinare qualcosa per noi. 
Cosa ci propone questo cuoco, bravo sì, ma parecchio squinternato? 
Le "Bavette alla carbonara di mare", ma prima di darvi la ricetta, visto che dallo scorso venerdì questo appuntamento ha preso una piega un po' "frivola", vi racconto chi è Nettuno.
Non è a caso che l'ho soprannominato così. Il mare è la sua vita, e come il mare è imprevedibile, a volte calmo e talvolta agitato, limpido e cupo, spesso lascia notare solo ciò che "galleggia" in superficie, ma nella sua profondità nasconde un mondo inesplorato...insomma, sta cercando moglie! Macché moglie, mi sono sbagliata, cerca la sua sirena, non mi dà bene...
E' attorniato da pesci, di tutti i tipi, ma lui vuole trovare una Sirena con la S maiuscola, dice che non ci sono più le Sirene "d'una volta", ma sarà vero? Qualcuno di voi mi può aiutare? Via, su, sennò oggi non mi fa mangiare...ne va delle "Bavette alla carbonara di mare"!


Ah, dimenticavo, non è un dettaglio: fa chilometri per venire a Firenze a fare il volontario, quando non è in giro per il mondo, adora mia figlia Irene e tutti i bimbi, i ragazzi, gli adulti "anche Down"!
                                           

Bevette alla carbonara di mare



Dosi per 4 persone
400 gr. di bavette
100 gr. di guancia (o guanciale)
100 gr. di vongole sgusciate
200 gr. di vongole fresche
2 uova
aglio
peperoncino
olio
sale

Visto che precisione dopo la tirata d'orecchie delle volte precedenti?

Procedimento:

Far rosolare la guancia nella padella, con l'olio, finché non è d'oro, poi mettere l'aglio e il peperoncino, aggiungere le vongole sgusciate e fresche finché non si aprono, mantenendo il fuoco lento. Saltare con la pasta fino a fine cottura e poi aggiungere l'uovo a fornello spento. Servire immediatamente.

Insomma, via, poteva andare peggio...




...e per finire o iniziare..

Io sono golosa, amo i dolci, di tutti i tipi. La prima cosa che faccio alle sei del mattino per mettere in funzione quei pochi neuroni che mi vagano (perdendosi) nella testa è la colazione, rigorosamente in casa, con pane burro e marmellata, caffellatte, cioccolato fondente, briosche con la Nutella...
quindi non mancherà il dessert, e oggi, per iniziare, verrà servita nell'altra sala anche dell'ottima sangria



e per finire qualche cornetto



ma a chi si è lamentato perché propongo poco pesce e troppi dolci, "che a settembre si rotola", "lascio" la Torta di Pesce...Buon appetito!

www.at21.it

mercoledì 17 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Due rose rosse per Valentina.

Quando nasce Valentina il mondo fuori è già cambiato, e velocemente va cambiando negli anni. Il progresso è l'unica religione che nessuno sembra mettere in discussione, il sistema sanitario è presumibilmente un modello d'avanguardia e la fantomatica società ha probabilmente compiuto l'ultimo passo per poter accogliere una bimba come Valentina. Va più o meno così, ascoltandone il racconto dalle parole di suo padre, con diverse eccezioni che fanno storcere la bocca e qualche vetta di positività che ci permette, finalmente, di allentarla in un sorriso.

 
Valentina alla presentazione di "Chi lo legge queto libro?"
Mia figlia Valentina adesso ha 28 anni e lavora per una grande società informatica. Uno dei regali più belli che ha ricevuto, forse il più significativo, è stato dieci anni fa, per il suo diciottesimo compleanno.
Ci suonarono il campanello e salirono in casa due ragazzi, ciascuno con una rosa rossa per lei. Certi gesti sono sempre importanti, forti, ma talvolta lo sono ancora di più. Dipende molto da chi li compie, dalla maniera in cui lo fa, dai tempi e dai modi. Dipende molto dalla storia che c'è dietro, da tutto quello che c'è stato prima di  quel preciso istante lì. Facciamo un salto indietro.

In maternità, quello che notai mentre aspettavo che mia moglie partorisse, era soltanto una certa agitazione, tra i medici e infermieri, movimenti che potevano sembrare sospetti. Mi preoccupai. In quei frangenti la mente ne pensa di tutti i colori, fino a immaginare il peggio, così chiedevamo informazioni, spiegazioni, ma venivamo rassicurati, sia io che mia moglie. Quando poi vedemmo Valentina ci tranquillizzammo ancora di più. Era una bella bambina, non aveva nessun segno evidente, nei tratti del viso, degli occhi, che potesse farci immaginare quello che i medici ci hanno riferito due giorni più tardi. Valentina è affetta da sindrome di Down.

Dopo un primo forte dolore, e dopo lo smarrimento dei primi giorni, siamo riusciti presto a orientarci in quello che poteva essere il cammino migliore per lei. Credo che in questo abbia aiutato molto il fatto che mia moglie lavorasse come infermiera, in ospedale, e conoscesse così diverse persone che in quel periodo seppero indirizzarci e darci consigli.
Quello che ci si prospettò, all'inizio, era che non ci fosse su Firenze una figura che potesse occuparsi al meglio di Valentina, per quelle che sono tutte le problematiche in una bambina nata come lei. Ci rivolgemmo presto a uno specialista che operava a Pesaro, una persona che ci piacque molto per come si poneva: non prometteva miracoli né prescriveva pozioni magiche, anzi ci indirizzava soltanto su farmaci conosciuti, che trovavano il consenso anche dei nostri medici. Del resto, perlomeno in quegli anni, un riscontro effettivo, reale, sull'efficacia dei medicinali e sulla giustezza della loro scelta era, come gli stessi dottori ci dicevano, pressoché impossibile: sarebbero servite "due Valentine" per capire quello che sarebbe stato il suo percorso con o senza quei farmaci. Bene o male si procedeva per tentativi. Ma per fortuna Valentina non ha mai avuto problematiche particolari, era solanto più cagionevole degli altri bambini, era per esempio soggetta a frequenti raffreddori, cose che comunque sono migliorate con il tempo e con le cure di quello specialista, da cui abbiamo continuato a portarla per circa quattro anni.

Diciamo che dopo la batosta iniziale, quella ovvia, della nascita, Valentina ha avuto un'infanzia regolare, con pochi problemi d'inserimento sia alla scuola materna che all'asilo nido, dove subito ci hanno consigliato di iscriverla. Era bene che cominciasse presto a stare insieme agli altri, a fare le stesse cose che facevano loro, era giusto che imparasse a convivere. Anche il paese dove viviamo ha risposto bene. E' un comune piuttosto piccolo della provincia di Firenze e anche con mia moglie ci diciamo che davvero non poteva andare meglio, in quanto a inserimento e accoglienza, perché Valentina  non ha mai avuto problemi con niente e con nessuno. Un problema è uscito fuori, poi, al momento dell'iscrizione alla scuola elementare.

Quando ci presentammo per iscrivere Valentina il direttore ci inventò delle scuse, dei motivi, per convincerci a non segnarla in quella scuola ma in un'altra, più lontana da casa nostra. Le sue motivazioni non ci sembravano per niente fondate, anzi, proprio non ci convincevano. Insisteva nel dire che sarebbe stato meglio per lei, che di là si sarebbe trovata bene, eccetera, e noi cercavamo di capire il perché, ma invano, dato che un vero motivo non c'era. La verità era che lui preferiva non averla lì, tra le scatole, nella sua scuola. Questo era. E questo ci fece molto male.
E oltre a tutto, oltre a non sembrarci giusto il suo atteggiamento, la scuola che ci indicava per Valentina non piaceva a noi, era scomoda e distante, e soprattutto era assurdo che ci piegassimo alle sue volontà. Allora, per cercare di metterlo alle strette, visto che lui stesso avrebbe dovuto firmare per l'iscrizione di Valentina in un altro istituto, ne proponemmo un terzo, cioè la terza scuola che è presente sul territorio comunale. A quel punto, quando lui stesso avrebbe dovuto esporsi in prima persona per questa strana variazione di istituto, tornò sui propri passi e decise di "accettare" Valentina nella sua scuola, quella che le spettava, quella più vicina a casa.
I problemi certamente continuarono, ma non direttamente con Valentina, bensì internamente alla scuola, tra il direttore e la maestra che avrebbe dovuto averla in classe. Ci furono delle discussioni e dei battibecchi che ci giusero all'orecchio, finché la maestra non se ne uscì piuttosto duramente: Valentina la accettiamo, sì, purché  ci faccia seguire il nostro programma e non crei troppi problemi. Sembrava restare una certa diffidenza nei nostri confronti, un'aria avversa, e questa per noi fu un'altra batosta.

In questo clima si inserì un'insegnante di sostegno a cui siamo molto grati. Ha seguito Valentina per tre anni, dandole molto. Come maestra appariva rigida, autoritaria, e questo credo sia davvero servito a Valentina: sapere che nella vita si deve attenerci a determinate regole, avere un certo comportamento eccetera. D'altro canto era una maestra che al momento giusto sapeva essere dolce, sapeva regalare una coccola e uno scherzo, e anche questo piaceva e aiutava molto Valentina nella scuola.
Nei due anni successivi la maestra è cambiata, ma per fortuna è arrivata un'altra persona molto preparata, veramente valida, con cui si può dire che Valentina ha imparato le prime cose della vita adulta, fino al passaggio alla scuola media. Insomma a parte il disagio iniziale, l'amarezza al momento dell'iscrizione e certe asprezze che inizialmente ci riservava la maestra, il percorso poi si è svolto al meglio. Valentina si è inserita in classe senza problemi, ha seguito il programma e con i ragazzi è stata veramente bene. Tanto che la stessa maestra, quando ci stringemmo la mano per salutarci, alla fine dell'ultimo anno, ci disse che da Valentina aveva imparato molto. Questo ci disse: da Valentina ho imparato molto. Tanto che concluse tutte le scuole elementari, le persone che in quel momento circondavano Valentina non avevano ancora finito di regalarle emozioni.
Erano infatti due ex compagni di classe quelli che otto anni dopo, il giorno del suo diciottesimo compleanno, ci suonarono il campanello per portarle una rosa rossa ciascuno. Due ragazzi che nel frattempo Valentina aveva in pratica perso di vista, ma che adesso, a distanza, si ricordavano comunque di lei e dell'importanza dei quel giorno. Questo gesto ci disse molto, di loro e di quello che nonostante tutto la maestra gli aveva inegnato in quegli anni. Questo gesto credo sia stato il coronamento del percorso che dalla batosta iniziale alle altre, più piccole ma comunque dolorose, tra le tappe sempre regolari della crescita, l'hanno finalmente portata qui, al meglio, a quella che è Valentina adesso.

Valentina ha fatto le scuole medie, l'Istituto alberghiero, e ha poi lavorato per quattro anni in una mensa scolastica. Adesso lavora, appunto come impiegata, per una multinazionale informatica, e in questo cambiamento significativo, da un lavoro all'altro, è stata seguita proprio dall'associazione Trisomia 21.
In realtà all'Associazione ci siamo iscritti già una quindicina di anni fa, ma di certo a quei tempi non aveva gli strumenti di adesso. Ora è in grado di seguire i genitori fin da prima della nascita con consigli, indicazioni, dati, e poi il bambino fin dai primi anni per quanto riguarda salute, scuola, autonomia, fino ad arrivare a un inserimento lavorativo. A quei tempi era quasi un'iscrizione di appartenenza: ci segnavamo a un'associazione di persone che avevano problemi simili ai nostri, con genitori che avevano figli come il nostro. Era più o meno tutto qui. I progetti, le iniziative erano rare, potevano dare delle informazioni, delle dritte, ma spesso si finiva per essere dirottati in altri posti, dagli Invalidi Civili per esempio.

Qggi Valentina è circondata per gran parte da ragazzi dell'Associazione, ha molti amici, fa teatro con loro, porta avanti diversi impegni e si toglie delle soddisfazioni. Non credo che viva un disagio con gli altri ragazzi, i cosiddetti "normali", anzi, spesso è più vero il contrario, magari siamo "noi", è la fantomatica società a percepire un imbarazzo di troppo, a non riuscire a liberarsi dei pregiudizi per saperla accogliere fino in fondo. Le cose con il tempo vanno comunque migliorando.
Tre anni fa Valentina ha fatto la sua prima vacanza da sola, un fine settimana con due amiche, in pensione: una cosa semplice, ma per lei immensa. Lo scorso anno una settimana in campeggio, ed è in queste situazioni che Valentina sente veramente l'autonomia, la libertà, il piacere della distanza dall'amorevole "rompimento" dei genitori.









Valentina è una ragazza autonoma, responsabile, indipendente. Valentina è adulta. Oltre alle innumerevoli attività che già svolgeva, adesso è anche un'eccellente barista al Nelson Mandela Forum, dove, insieme a decine di amici, lavora volontariamente ai punti bar che dal 2008 gestiamo come associazione (pare sia un progetto unico in Europa, e noi ce ne guardiamo bene dal dirlo in giro!:). E' una nuotatrice provetta, e infatti, suo malgrado, è stata "vittima", insieme ad altri, del tanto "discusso" episodio ai Mondiali di Pallanuoto che si sono svolti a Firenze lo scorso giugno. Anche quest'anno ha fatto le vacanze da sola, distante dall'amorevole "rompimento" dei genitori, ma vicina, purtroppo, a quella società che ancora è legata ai pregiudizi e che li tratta da bambini incapaci.Valentina ha alle spalle una famiglia eccezionale, attenta, fiduciosa, instancabile, ed è proprio questa positività che fa tramutare in sorrisi quelle eccezioni un po' amare che sono parte del nostro percorso di vita.

Continua...

Associazione Trisomia 21 Onlus
Chi lo legge questo libro? Persone e sindrome di Down
a cura di Emiliano Gucci
Mauro Pagliai Editore


lunedì 15 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Francesco, ancora un passo per l'integrazione.

Francesco è più o meno coetaneo di Paola. Vicine, simili, sono le circostanze e i tempi in cui cresce, le realtà quotidiane in cui cerca la propria strada per una vera integrazione. Diverse, come sempre succede tra un individuo e l'altro, sono le tappe della sua vita e soprattutto le riflessioni a cui giunge suo padre, in questa testimonianza che diventa un'occasione preziosa per porsi delle domande, sul presente e sul futuro di Francesco e dei ragazzi con i suoi stessi problemi. Tra molte speranze, qualche amarezza, e soprattutto una piena consapevolezza di quanto sia dura e difficile, in realtà, la strada che porta a una vera e completa integrazione.

Francesco

Francesco oggi ha 41 anni. Le cose sono cambiate molto con il tempo, da quando è nato a oggi. Intanto nel rapporto con questi ragazzi, nella capacità che la società ha sviluppato per intervenire, integrarli, farli migliorare.




Quando portammo Francesco all'asilo nido non ce lo presero. Quando lo portammo a scuola non ce lo presero. Questi erano i fatti. Le scuole non erano attrezzate, e sicuramente in quei tempi si aveva una sorata di paura, il timore di affrontare la diversità.

Quello che è stato fatto dai genitori della mia generazione è questo: riuscire un po' alla volta a far accettare questi ragazzi, che adesso non sono più ghettizzati e se non altro vengono accolti. Come vengono accolti, e cosa si faccia per loro, è di certo un altro discorso, che dipende dalla sensibilità, dalla competenza delle persone, e per ogni singolo individuo anche dalla fortuna: di capitare in una struttura adeguata, di fronte a figure preparate. Ci sono di certo persone molto attente, molto disponibili, brave, ma accanto a loro ci sono individui meno adeguati. Questo secondo me è un punto, cioè un obiettivo da rilanciare per il presente: il controllo che dovrebbe essere esercitato sulle competenze e i servizi che vengono offerti ai nostri ragazzi.

La nascita di Francesco fu seguita con tutte le attenzioni, anche perché il parto del mio primo figlio era stato molto travagliato. Quando mia moglie entrò in clinica il personale medico ci assicurò che dal punto di vista del parto non ci sarebbero stati problemi, e in effetti fu così, andò tutto bene. Però ricordo che in quei momenti passò di lì il ginecologo e naturalmente mi avvicinai per salutarlo: mi accorsi subito che c'era qualcosa che non andava. Ebbi la netta sensazione che mi evitasse, e mi rendo ben conto che non sia affatto facile dire determinate cose in faccia, a un genitore. Infatti mi disse soltanto che sarebbe stato meglio parlare con il pediatra, e così facemmo. Il pediatra venne subito e mi spiegò come stavano le cose. I problemi sono iniziati subito dopo, quando abbiamo dovuto metterci in giro per capire cosa si poteva fare. A quei tempi non c'era davvero niente, proprio non si sapeva dove sbattere la testa. Molte volte ci siamo resi conto che anche chi ci avrebbe dovuto dare delle informazioni non era in grado, non era all'altezza di darcele. Anche nell'ambiente medico scoprivamo che i problemi dell'handicap erano conosciuti relativamente. Va detto che a quell'epoca le famiglie, in generale, tendevano soprattutto a proteggere, nascondere il figlio, e c'era anche una sorta di vergogna, come se questa diversità implicasse una colpa. In giro se ne vedevano pochi, di ragazzi handicappati, e per quelli che si vedevano c'era da considerare bene l'atteggiamento della gente intorno. Mi ricordo per esempio di quando portavamo Franesco ai giardini pubblici. La prima cosa che colpiva, era che le mamme prendevano i loro figli e li portavano via. La cosa non mi scandalizzava, pensavo che come al solito ciò che non si conosce fa paura, e sostanzialmente, si cerca di evitarlo. Va così, da sempre.
Noi abbiamo forse fatto da apripista, in questo senso, incontrandoci come Associazione: persone che non intendevano recludere il proprio figlio ma volevano portarlo fuori, farlo vivere. E piano piano, la gente e poi le istituzioni hanno cominciato a prenderci in considerazione. Però all'asilo, per intenderci, Francesco lo abbiamo mandato dalle suore, le uniche che lo hanno voluto, e che se non altro ci mettevano tutte le loro buone volontà. Lo abbiamo poi iscritto al Cemea, scuola materna Margherita Foscolo, dove lavoravano benissimo. Una scuola materna d'avanguardia, dove con Francesco hanno fatto davvero un lavoro magnifico: persone molto preparate a trattare con i bambini, e non dico con gli handicappati, dico con i bambini in generale. Francesco ha fatto poi le elementari e le medie nella scuola statale, con un'assistenza. Le cose non erano di certo semplici ma comunque l'inserimento c'era. Del resto i nostri ragazzi, quelli della generazione di Francesco, sono stati tra virgolette delle cavie, in un periodo che ha aperto diverse strade.

Il punto più duro è che poi, nel tempo, a conti fatti, i nostri ragazzi sono rientrati in famiglia. Il problema irrisolto per me è questo: cosa fanno poi, crescendo, questi ragazzi? Molti sono rimasti in famiglia. Anche perché se per loro si crea una vera rete di rapporti con i ragazzi "normali", è inevitabile che finisca così.
Francesco per esempio è stato nei boyscout. Lo trattavano veramente come uno qualsiasi, e con loro è stato bene per molti anni. Anche perché lui rimaneva lo stesso, e intorno i ragazzi crescevano e cambiavano. C'è rimasto una quindicina d'anni, serenamente. E poi?
Gli altri si sposano, si creano una famiglia, fanno figli. Certo continuano ad avere dei momenti di condivisione, insieme: si incontrano, fanno feste, ma nella vita reale restano su binari distanti. Con i suoi fratelli è successa la stessa cosa. E' logico che siano molto legati ma che allo stesso tempo si siano fatti una vita loro, perché neanche sarebbe giusto che Francesco influisse troppo sulle loro esistenze.
E per questo credo che anche per i ragazzi come lui possano accrescere problemi di natura psicologica. Perché è ovvio che lui si renda conto. Tanto che a volte viene da domandarsi quanto sia stato giusto tutto questo percorso, portandolo fuori dalla famiglia quando poi in realtà il suo unico mondo rimane la famiglia stessa, viene da chiedersi quanto sia stato onesto fargli intravedere qualcosa del fuori, del mondo vero, perché poi capisse sulla propria pelle che per lui tutto ciò sarà irraggiungibile.
Nonostante che molti di questi ragazzi siano autonomi, autosuffficienti, la loro capacità di relazione con i coetanei, di integrazione vera e propria, è difficile. Francesco sta con me e sua madre. Passa la giornata in un istituto, dove si trova bene, e a volte credo che nella misura della sua incompleta autosufficienza stia la sua fortuna. A volte mi viene da pensare che quei ragazzi più autonomi e più consapevoli di lui possano soffrire ancora più duramente. Mi sembra quasi automatico: vedono che i coetanei si ritrovano, stanno fuori insieme, hanno un'auto, una moto, si sposano, eccetera. Così a loro volta domandano ai genitori: perché io no? Come mai?
Non voglio essere catastrofista, soltanto obiettivo, perché le cose vanno affrontate per quello che sono.

Il passo successivo sarà molto difficile, questo voglio dire. E' stata fatta molta strada e forse manca l'ultimo scalino, quello della vera integrazione, e probabilmente sarà il più duro da superare. Riuscire a trovare dei meccanismi di vita in cui i nostri ragazzi si integrino pienamente insieme aglia altri. E' ovvio che come gli altri provino sentimenti, abbiano amori, passioni, ambizioni, ma è dura farli convivere, anche nelle differenze che per loro comportano certi momenti.
Questi ragazzi hanno i loro limiti ma hanno anche la loro sensibilità, e soffrono. E anche se in fin dei conti ho una visione ottimistica del mondo, anche se l'educazione che ho dato a Francesco va in questo senso qui, perché in tutto e per tutto è considerato un figlio come gli altri, credo che sarà dura salire l'ultimo gradino.
Molte barriere sono cadutte, i ragazzi Down sono stati accettati e grazie al cielo abbiamo anche superato questo modo di pensare a loro come agli scemi del villaggio. E' caduta la stupida equazione tra soggetti Down e stupidità, e poi loro hanno questa fortuna di essere ben disponibili nei confronti degli altri, e spesso di rimanere simpatici. Spesso, come abbiamo detto, hanno anche una loro autonomia. Manca l'ultimo passo, e credo ci sia da lavorare ancora molto sui genitori. Quelli di adesso sono più pronti, più preparati. Credo si debba lavorare anche sulle loro aspettative, sulle speranze che possono rischiare di condizionare i figli. Credo si debba lavorare perché accettino senza riserve la condizione dei loro figli, senza sperare chissà che cosa. Per evitare di covare una sorta di rancore nei confronti del destino, del fato. Per evitare di sentirsi sfortunati. Per la consapevolezza che si tratta soltanto di un figlio, come tutti gli altri ma anche Down, e quindi più fragile, con un bisogno in più di essere protetto e accompagnato al mondo.





Le riflessioni di Agostino, padre di Francesco, crude, dure, ma purtroppo reali, innegabili verità, sono sempre state per me uno stimolo per cercare di fare meglio, lavorare costantemente per riuscire a coinvolgere sempre più la società, quegli umani che ancora sono legati a stupidi pregiudizi. Perché sarebbe veramente ingiusto preparare i nostri figli a vivere nel mondo, e non fare altrettanto per far sì che quel mondo sia preparato ad accoglierli. Tutto questo, però, non potremo raggiungerlo senza una corale volontà di cambiare, anche poco, seppur lentamente...quel gradino di cui parla Agostino è ancora oggi altissimo, lo so, lo sappiamo, non serve l'ipocrisia, e purtroppo episodi anche molto recenti sono lì, a ricordarcelo costantemente. E' così alto quel gradino che anch'io, a volte, ho il terrore di venire anche solo minimamente "sfiorata dal pensiero" che mai riusciremo a salirlo.

Continua...
Associazione Trisomia 21 Onlus
Chi lo legge questo libro? Persone e sindrome di Down
a cura di Emiliano Gucci
Mauro Pagliai Editore
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