lunedì 22 agosto 2011

Chi lo legge questo libro? Andrea, il dono immenso della vita.

E' una dura particolarità quella di Andrea. Per lui, per i suoi genitori, in un certo periodo la sindrome di Down passa in secondo piano al cospetto di una problematica ancora più allarmante. Soffre, fa soffrire, blocca il respiro di chi ascolta e le dita di chi scrive, forse anche gli occhi di chi legge. E' però una meravigliosa particolarità quella di Andrea. Per lui, per i suoi genitori, ogni momento della vita , adesso, sembra carico di una forza e di una gioia impensabili per la maggioranza delle persone che vantano un'esistenza "normale". Il racconto di sua madre parla di cambiamento e di scoperta, di crescita e di fede, ma scavalca ogni razionalità, ogni religione, sembra voler rendere a tutte le cose della nostra vita il valore che meritano, e che hanno. Così come piace fare ad Andrea.


Quando è nato Andrea, diciotto anni fa, il suo fratellino più grande aveva già sei anni. Come tutte le famiglie che attendono il secondo figlio eravamo in trepidante attesa, avevamo fatto tutti i nostri programmi, progetti su progetti. Eppure dentro di me c'era qualcosa che non quadrava. In qualche modo sentivo che qualcosa non stava andando bene. Ero agitata, non ero serena e tranquilla come per la prima gravidanza. Io che ero comunque molto credente, molto attaccata a Gesù, ogni volta che andavo in maternità per un controllo o per qualsiasi cosa, il luogo in cui mi fermavo sempre, e piangevo a dirotto, era in chiesa. Era strana, questa cosa. La chiesa mi richiamava, sempre, e mi sembrava assurdo sentirlo in maniera così forte. Non mi era accaduto mai, mai l'avevo frequentata con tanta sistematicità. Insomma per me c'era qualcosa di anomalo, qualcosa che non tornava.

Poi Andrea è nato, dopo un'incredibile corsa all'ospedale, mio marito che è arrivato all'ultimo momento e ha vissuto solo l'ultima fase del parto e io tranquilla e serena, perché quando mi hanno messo Andrea sulla pancia era bellissimo e basta.
Lì per lì non mi sono accorta di niente, ma la tranquillità è durata un momento. Già negli occhi di mio marito, nella sua espressione, vidi che aveva notato qualcosa che non andava, anche se non riusciva a dirmi niente.
Fu lui il primo ad avere la conferma, più tardi, quando portarono via Andrea per fargli tutti i test e gli accertamenti del caso. Mi riferì che c'era qualche problemino senza ancora parlarmi di sindrome di Down. Me lo dissero più tardi, quando mi riportarono il bambino, e la mia prima  domanda fu cosa volesse dire veramente, "Down", perché soltanto in certi momenti ti rendi conto di quanto poco sappiamo di certe realtà.

E' buffo, ripensandoci adesso. Mi ricordo che pochi mesi prima del parto avevo visto quel film, Rain Man, quello con Cruise e Hoffman, in cui a un certo punto compare un ragazzo Down. Mi voltai verso mio marito e scherzando gli dissi "Non sarà mica così, nostro figlio, vero?". Lui disse di no, e scherzò con me. Non vuol dire niente ma col senno di poi ripensi all'episodio come a un messaggio, una specie di segnale. Perché mi venne di fargli quella domanda?

Mio marito dopo il parto fu di una grandezza incredibile, e pronunciò la frase che poi ha racchiuso un po' il senso di tutta la mia vita, e che suonava più o meno così: "Non preoccuparti, Gesù ci ha dato Andrea e saprà aiutarci in questo cammino, insieme."
Così è stato.
La cosa che mi faceva più male, in quei momenti, tra la speranza delle sue parole e lo sconforto che a tratti inevitabilmente prende, erano gli sguardi delle infermiere, quando mi portavano Andrea e lo lasciavano con me. Restavano lì a guardarmi, a guardarci, a cercare se nei miei occhi, che sono un po' più assottigliati, a mandorla, potessero esserci dei tratti di somiglianza con quelli di mio figlio. Atteggiamenti che mi laceravano, perché comunque per me Andrea era bello, a prescindere dal taglio dei suoi occhi. Era eccezionale, era comunque Andrea, era il mio bambino e basta. Il giorno che andai a prenderlo per portarmelo a casa l'infermiera mi disse che se non ce la sentivamo potevamo anche lasciarlo lì.
Ci disse proprio questo: "Se volete, lasciatelo. Tante altre persone fanno così."
Ci guardammo, io e mio marito, convinti di voler andare via subito da quel posto, con nostro figlio al seguito, ovviamente, perché certe cose non le volevamo neanche ascoltare. E avevamo comunque la sensazione che anche loro volessero mandarci via, e di fretta, perché il fatto che Andrea non avesse appunto gli occhi come gli altri, e fosse diverso, sembrava che disturbasse, che non si dovesse far vedere. Una cosa che percepimmo anche dopo, nei giorni in cui andavamo al reparto genetica per gli esami nostri e del bambino: l'impressione che sempre ci facessero passare quando c'era poca gente, quando non davamo nell'occhio. L'idea che fossimo in qualche modo da nascondere, da occultare. Con la certezza che il disagio per la nostra presenza stesse negli altri, di certo non in noi. E questi sono i traumi che ti porti dietro per sempre.

Fuori dall'ospedale ho incontrato le prime persone che mi hanno poi aiutato nel percorso, rassicurandomi che con Andrea avrei dovuto fare quello che si fa con tutti i bambini, che con un po' di pazienza in più sarebbe andato tutto per il verso giusto. Devo riconoscere che molti passaggi di quei mesi,  anche i più difficili, i più duri, quasi non me li ricordo più, sinceramente, forse perché adesso vivo tutto con una serenità diversa, di certo acquisita con questo percorso. Io timida, io timorosa, insomma io con il carattere che ho, mi sono ritrovata con Andrea a superarmi e a essere quello che sono, di certo contenta di vivere, adesso, così. Andrea mi ha fatto crescere, conoscere, diventare combattiva come in effetti prima non lo ero mai stata.

Vennero i primi mesi, le prime difficoltà per come affrontare la cosa con le persone che ci circondavano, le nostre famiglie e soprattutto il suo fratellino più grande: vedeva che c'era una diversità in Andrea, ma come dovevamo spiegargliela? Abbiamo cercato di farlo con naturalezza, con semplicità, guidati dalle stesse parole con cui fin dal principio mio marito ha supportato me. E quindi via con le varie pratiche che si fanno con tutti i bambini nei primi tempi, e via con i massaggini, la ginnastica, l'attività motoria, la psicomotricità, via con diverse attività che avevano anche la dimensione del gioco, della normalità. Prendemmo già dei contatti con l'Associazione e incontrammo grande disponibilità, ma inizialmente non ci legammo molto. La verità è che io non ero pronta. Ero convinta che non ci servisse un supporto esterno, che non ne avessimo bisogno, che potessimo fare da soli. Di certo c'era una mia sbagliata presunzione in questo, e il fatto era che forse, anzi sicuramente, prima dovevo conoscere io. Adesso so che non si può far da soli, so che è impensabile.

Via i primi mesi quindi, e vai con il primo vaccino. E subito, senza tregua, ci crollò di nuovo il mondo addosso.
Si trattava di un vaccino comune, trivalente più pertosse. E da quel vaccino lì, anche se la cosa non è mai stata ammessa fino in fondo, in Andrea si scatenò un'epilessia. Anzi, prima una piccola febbre, e poi alcune scosse, strane, che notai subito. Andammo al volo dal pediatra, che al volo ci mandò al Meyer, e fatto il primo encefalogramma si notò questa sua attività parossistica del cervello. Era collegata alla sindrome di West, che colpisce il sistema nervoso centrale, e di coseguenza motorio. In soggetti come Andrea, laddove il sistema motorio è già precario, le conseguenze sono ovviamente più drammatiche. In pratica , da quel momento, lui ha vegetato. Per un anno. Con delle crisi fortissime. Degli attacchi, dei momenti in cui sembrava prendesse delle martellate sulla testa e precipitava continuamente in avanti, con il corpo. Spasmi, molto violenti, in flessione e in estensione. Non potevamo tenerlo da nessuna parte, non potevamo abbandonarlo mai.
Nel frattempo, altri bambini erano stati ricoverati in ospedale con la sindrome di West. E le speranze che ci dettero i medici erano al ribasso, anzi il persistere della sindrome poteva anche fare dei danni permanenti, come bloccare completamente l'attività motoria di Andrea.
Abbiamo festeggiato il suo primo compleanno sostenendogli il viso, per evitare che in qualsiasi istante potesse precipitargli la testa sulla candelina. Sembra atroce, eppure anche in quei momenti, quando non era vittima delle sue crisi, gli occhi di Andrea esprimevano una gioia incredibile. Anzi esprimevano tutto, esprimevano la vita, qualsiasi cosa.

Fu un anno imbottito di medicine. Andavamo a coprarle a Roma, perché alcuni farmaci specifici, nuovi, si vendevano soltanto in Città del Vaticano, oppure in Svizzera. Siamo stati ricoverati molto spesso in ospedale. Siamo andati fino in Francia per parlare con uno specialista che ci disse che Andrea si sarebbe potuto portare addosso quei sintomi per sempre. Gli abbiamo dato anche dei barbiturici. Andrea era sedato, intontito dalle cure. Ricordo che gli cantavo continuamente delle canzoncine, gli parlavo senza capire se parlassi al vento, o se qualcosa recepisse. Abbiamo tentato poi una cura a base di cortisonici, l'unica che sembrava potesse diminuire gli spasmi di Andrea. Quarantacinque giorni in ospedale, esami su esami, ossigeno, terapia, ma come hanno cominciato a scalargli il dosaggio ad Andrea sono venute le convulsioni cianotiche. Insomma, fu come vederlo morire due volte prima vegetale, poi quasi morto per davvvero.

Invece Andrea ne è uscito vivo, ma vivo veramente.
E abbiamo poi scoperto che le mie canzioncine, le mie parole, le sentiva eccome. Che non ha subito lesioni permanenti, anche se la sindrome aveva colpito più la parte frontale del cervello, ritardando la verbalizzazione, il linguaggio. Si è arrestata, la sindrome, anche se Andrea resta un soggetto epilettico. In quel periodo viaggiavamo sempre con le bombole di ossigeno appresso perché non sapevamo quando potesse prendergli una crisi. Eppure, certi che ce l'avremmo fatta, facevamo tutte le cose normali che dovevamo fare, anche le vacanze, andavamo anche in montagna per non trascurare l'altro fratello. Siamo stati a sciare, con gli amici, in funivia con appresso le bombole d'ossigeno e le sonde pronte per intervenire, in caso di emergenza. Non sentivamo queste cose come un peso ma come la normalità, cioè come normalmente sentiamo quello che c'è da fare per i nostri figli.

Quando Andrea ha cominciato a prendere meno medicine ha iniziato anche a far vedere la grande gioia che ha dentro. Ha tirato fuori una bellezza  che commuove, continuamente, me e chi gli sta accanto. Ha una sensibilità e una gioia che sorprende, è un dono che trasmette, che non ci limita ma anzi ci spinge sempre più in avanti, oltre l'apparenza delle cose. Adesso che parla un po' di più e che con i gesti, con gli occhi e con il volto riesce comunque a comunicare sempre, spesso è lui a sconvolgermi e confortarmi. Nonostante le difficoltà che può incontrare, Andrea ha qualcosa di più grande, dentro.
Con lui abbiamo imparato quello che davvero vuol dire ascoltare un figlio. Ascoltarlo non per quello che vorremmo sentirci dire, come spesso facciamo da bravi genitori. Ascoltarlo non per quello che vorremmo mettergli in bocca, perché con lui sarebbe impossibile, proprio per la sua difficoltà nell'esprimersi, per la sua forza che invece gli muove da dentro. Andrea ti costringe a sentirlo per quello che realmente è. Ti costringe a fermarti, a ragionarci sopra, a interpretarlo, a capirlo per davvero, a considerarlo per quello che veramente dice. A considerarci per quello che realmente siamo, a essere noi stessi. Ed è una grande conquista.

Ha cominciato a camminare a quasi quattro anni, ha detto la prima parola, "mamma", a cinque. Ha comunque frequentato l'asilo nido, la scuola materna, poi le elementari, le medie. E qui, nel bisogno di altro che sentivamo per Andrea, fuori dalla scuola e dai gruppi, dalle amicizie che potevamo frequentare, è tornata in ballo l'Associazione. Ci siamo riavvicinati e abbiamo incontrato un modo diverso di fare associazione, una linea nuova, un modo di guardare ai ragazzi nella totalità delle loro esigenze, dai bisogni dei più piccoli a quelli dei più grandi. Una maniera di accogliere diversa, forse anche per me che finalmente ero cambiata, pronta per un percorso insieme, per lo scambio di esperienze e per il confronto. Non si può fare da soli, questo lo abbiamo imparato. E' soltanto così che possiamo far crescere i nostri figli, così che si integrano e così che si lotta per farli stare al meglio nella società.

Perché fuori il mondo è questo, avanzato, ma sempre impreparato. Allora può succedere che ti adegui, ti limiti e finisci per vivere al ribasso. Ecco, con Andrea questo non è possibile. Con Andrea non si può vivere al ribasso, si deve vivere al rialzo. Lui ha questo amore per la vita, questa passione potente, che ti scuote ogni giorno. Lui si supera ogni volta, per comunicare, per vivere a pieno questa meravigliosa vita qua. Lui non si ferma davanti ai suoi limiti. Mai. Va oltre. Noi spesso ci fermiamo, e forse anche per questo avemmo molto da imparare da lui. 













Emiliano Gucci, nella sua introduzione, ha saputo cogliere l'essenziale, il senso del messaggio. Ogni ulteriore commento sarebbe superfluo. E' già tutto lì.
Ho incrociato Anna sul mio cammino più o meno sette anni fa. Anna per me, adesso, non è solo la mamma di Andrea, è molto di più. E Andrea è veramente il dono immenso della vita, il suo sorriso è la risposta a quelle domande che a volte ci rivolgiamo quando ci assalgono i "dubbi" sulla loro felicità. Io non ho "dubbi" sulla loro felicità e non perché siano "incapaci d'intendere", ma perché hanno veramente insito in loro quell' amore per la vita che permette di superare gli ostacoli e di viverla a pieno.
Capita purtroppo a volte che qualcuno spenga il loro, il nostro sorriso. E' quel "qualcuno" che non comprende e allo stesso tempo giudica, fermandosi davanti a quei limiti, senza riuscire a vedere l'immensa bellezza che c'è oltre.

Associazione Trisomia 21 Onlus
Chi lo legge questo libro? Persone e sindrome di Down
a cura di Emiliano Gucci
Mauro Pagliai Editore

3 commenti:

  1. Un abbraccio ad Andrea "cuoco Speziale", ai suoi genitori e alla mia adorata Antonella, conoscerla ha dato valore alla mia vita, GRAZIE!!!

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  2. Ma lui è uno dei cuochi speziali!!!
    Un abbraccio ad Andrea anche da parte mia ;-)

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  3. Come è testarda la felicità a volte...
    Sono d'accordo, niente da aggiungere a quanto detto da Emiliano Gucci.
    Grazie Anna!

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