lunedì 19 agosto 2013

La grammatica è una canzone dolce




In una calda giornata d'agosto, dentro una fresca libreria di Firenze, dopo aver preso e riposato decine di libri, questa frase le incuriosì:


"Facciamo una scommessa?"
riprese il signor Enrico.
"Se da qui a una settimana 
non amate la grammatica,
io rompo la mia chitarra".


Strana, davvero stana l'isola dove approda Giovanna con il fratello Tommaso dopo un naufragio.
Com'è diversa dal mondo che conoscono i due bambini! Qui ci sono spiagge e palme e una barriere corallina, cielo azzurro e mare trasparente, pesci e uccelli colorati. Un'isola tropicale come tante altre? No: dove si è mai vista un'isola con negozi che vendono parole, un municipio per i matrimoni tra sostantivi e aggettivi, un ospedale per le parole malate e una fabbrica per costruire le frasi, con distributori automatici di articoli e orologi a pendolo per i modi verbali? L'isola è una specie di "grammatica vivente" in cui i due fratelli , rimasti muti per lo spavento della tempesta, imparano a parlare in un modo nuovo, diventando consapevoli della ricchezza presente nella lingua e nell'amore necessario per renderla viva, perché nominare una cosa vuol dire farla esistere, creare la realtà. Un racconto poetico, educativo, leggero, in cui tutto diventa occasione per giocare, per assaporare le parole, le frasi e i loro intrecci.
Una crociata per salvare le parole dimenticate, per non abusare di quelle troppo comuni, contro la morte della lingua e della letteratura, per ricordare che "sopprimendo le parole si diminuisce una parte della vita di ciascuno di noi". Un omaggio alla letteratura di tutti i tempi, una lezione di sintassi rigorosa e al tempo stesso divertente, una grande dichiarazione d'affetto, un romanzo d'amore che s'innalza lieve come una canzone.




In una calda giornata d'agosto, dentro una fresca libreria di Firenze, dopo aver preso e riposato decine di libri, queste parole furono sicuramente convincenti per quella bambina che adorava la musica, suonava la chitarra, amava la letteratura e avrebbe voluto diventare una scrittrice.

Le parole sono come le note. Non basta metterle insieme. Senza regole, niente armonia. Niente musica. Soltanto rumori...

Comprarono quel libro.

Ma...

Mamma - sembravano dire i suoi occhi mentre leggeva - che bello se veramente qui ci fosse la chiave che mi permettesse di comprendere sempre il senso di quello che leggo senza doverlo rileggere, e se riuscissi finalmente a scrivere un periodo in italiano corretto!

Forse in quel libro non troveranno nessuna chiave, ma il momento in cui lo leggeranno insieme sarà lo stimolo che le aiuterà ad accettare la "sfida".
La sfida di una natura che preferiscono immaginare giocherellona, piuttosto che dispettosa!



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giovedì 8 agosto 2013

Giorni belli

Quella con il cavallo non è la nostra prima esperienza (questa memorabile) e per la verità, molti dei nostri ragazzi, praticano questa attività da molti anni e con successo.






Ma capita di incontrare persone che con assoluta semplicità e generosità ti accompagnano alla riscoperta di un mondo forse un po' dimenticato, che invece ti avvicina alla Terra, e ti aiuta a ritrovare un'alleanza con la natura spesso trascurata.




Sappiamo bene che la relazione uomo - animale e la sua cura, ha importanti ricadute nella società, in particolare nelle aree di recupero del disagio e della marginalità.




Non so se, giustificando questo nobile gesto con le capacità empatiche degli animali, ci preoccupiamo a sufficienza del benessere del cavallo e della riabilitazione vista dalla sua parte.










Sicuramente, accanto alla bellezza del cavallo, c'è un messaggio d'amore.




Non scordiamoci mai di sussurrargli all'orecchio la nostra riconoscenza...


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venerdì 2 agosto 2013

Libertà e brividi.






Da un anno, Jenny, combatte dentro un'aula di tribunale per difendere la sua libertà, contro la volontà dei genitori che hanno avviato una pratica di tutela per inserirla in una casa famiglia.


Da New York Massimo Vincenzi ci racconta:
La Battaglia di Jenny: “Io, Down e indipendente”

Jenny ha 29 anni e i capelli biondi tagliati a caschetto. Ama il viola, andare in bicicletta e stare con gli amici.
Quando ha capito quale lavoro avrebbe voluto fare non c’è stato ostacolo in grado di fermarla: è entrata in un negozio vintage e ha messo il suo curriculum sul bancone davanti alla proprietaria. Poi ci è tornata decine di volte, giorno dopo giorno, fino a quando ha vinto tutte le resistenze ed è stata assunta partime. Ma lei ci va sempre e ci resta per ore. Le piace far volontariato e si interessa di politica, partecipa alle campagne elettorali del Partito Repubblicano. In un test ha scritto: «Vorrei far qualcosa per l’America, abbassare le tasse». Adora andare in spiaggia, vedere gli animali allo zoo e mangiare nel suo ristorante preferito. Jenny ha la sindrome di Down. E da un anno combatte dentro un’aula di tribunale per affermare il diritto a poter prendere le sue decisioni, contro la volontà dei genitori che invece hanno avviato una pratica di tutela per metterla dentro una casa famiglia.





La sua battaglia adesso è un caso nazionale, il Washington Post la racconta in prima pagina con un titolo che non ha bisogno di traduzioni: «Jenny’s declaration of indipendence» e al suo fianco si schierano le associazioni per i diritti delle persone disabili che le offrono assistenza legale.
La storia inizia più di un anno fa. 
Lei, come capita alle giovani donne, non va d’accordo con la mamma Julia e così i genitori la lasciano andare da un loro vecchio amico. Una sera di pioggia Jenny, come capita a tutti, cade dalla bici e finisce in ospedale per una ferita alla schiena. Quando esce non sa dove andare: dai suoi non vuole tornare, il fratello abita lontano e non se ne può occupare. Lei un’idea ce l’ha: i suoi amici, Jim Talbert e Kelly Morris, la coppia che gestisce il “Village Thrift”, dove lavora. I due non hanno dubbi, sono felici di aiutarla: hanno una casa grande a Newport News in Virginia. Le mettono a posto la stanza: un letto bianco a baldacchino, un divano blu e un armadio per i suoi vestiti colorati. La felicità dura troppo poco, il tempo che la madre e il padre impiegano per depositare la richiesta di una tutela legale. Jenny deve andarsene, per mesi passa da una comunità all’altra. Adesso sopra il letto vuoto resta un cartello viola scritto a mano: «Voglio riavere la mia libertà di scelta, voglio riavere il mio lavoro». Kelly ne mostra la foto a tutti. E’ la prova che la ragazza sa cosa vuole. «Lei sa cosa prova, anche se nessuno ne tiene conto». E Jonathan Martinis, uno degli avvocati che la seguono, aggiunge: «Se io rompo l’auto e la porto dal meccanico, nessuno mi impedirà di guidare. Certo ha bisogno di aiuto, di essere seguita, ma non per questo non può prendere le sue decisioni». E in un comunicato alcune associazioni spiegano: «C’è un pregiudizio verso le persone disabili e soprattutto tanta disinformazione. Tutte le ultime ricerche provano che possono avere una vita normale se supportati nel migliore dei modi».
Non la pensano così i genitori che nella loro memoria ribadiscono: «Jenny non distingue il bene dal male, tende a mostrarsi affettuosa verso tutti: amici e sconosciuti, con rischi evidenti. Non ha conoscenze matematiche e questo le rende impossibile qualsiasi attività pratica. Deve andare in una struttura adeguata per fornirle tutta l’assistenza di cui ha bisogno. Quando l’abbiamo lasciata andare via la prima volta ci siamo accorti che è stato uno sbaglio. Un pericolo». E nella richiesta aggiungono che vogliono avere il diritto di decidere dove vive, chi vede e che assistenza medica riceve. A Newport News stanno dalla parte della ragazza. Un cartello nel suo negozio recita: «Justice for Jenny». Lo slogan è diventato un modo di salutarsi nel paese. Molti lasciano offerte per darle sostegno economico e vogliono andare a testimoniare in tribunale il 29 luglio: «Le vogliono bene» - dice Kelly. Lei, Jenny, che ride sempre, ha pianto solo una volta in quest’anno di lotta. Quando la vanno a prendere per portarla in comunità: «Non voglio, non voglio», urla. Adesso all’avvocato dice: «Mi mancano le persone che amo. La gente deve sapere che sono a prendere le mie decisioni, non gli altri»





  
Il sito del Washington Post è intasato di commenti. George scrive: «Mio figlio ha la stessa sindrome. Conosco tanta gente cosiddetta normale che sa fare molte meno cose di lui, che si gestisce in autonomia la sua vita. Certo ha bisogno di aiuto, ma chi di noi non ne ha?». Poi, mette uno spazio e aggiunge: «Mio figlio è la persona più gentile che io conosca». E per un papà non c’è altro da dire.

(La Repubblica 22/07/2013)





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