lunedì 28 aprile 2014

Rubrica letteraria: Nostra Signora del Nilo


Scholastique Mukasonga


Sono stato indirizzato a questo libro dalla Dott.sa Maria Stella Rognoni ricercatrice presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze e docente di un corso tenuto quest’anno presso l’Università dell’Età Libera dal titolo “L’Africa fra nuovi e vecchi interlocutori: politica, economia e società.”
Questo è il terzo lavoro della scrittrice nativa del Ruanda, di etnia TUTSI e fuggita in Francia a causa della situazione disperata creatasi nel suo paese negli scorsi anni.
Quest’anno si ricorda il 20° anniversario del genocidio avvenuto in Ruanda nel 1994 dove approssimativamente vennero trucidate un milione di persone nelle maniere più efferate in un periodo brevissimo. Certo le guerre, ed in particolar modo le guerre civili, causano sempre milioni di vittime (sono fatte apposta) ma in questo caso è il modo in cui queste morti sono state causate, praticamente a mani nude o con armi “di fortuna” a sconvolgermi ancora oggi con il ricordo di quelle notizie lette, viste o ascoltate.
Vorrei scrivere alcune notizie riguardo a quel paese per rappresentare a grandi linee e senza assolutamente alcuna pretesa di chiarezza lo sfondo in cui si svolge la storia rappresentata nel libro e l’atmosfera che lo pervade e che fa da premessa agli avvenimenti del 1994.
Il Ruanda è un piccolo stato posto nell’africa Centrale a cavallo dell’Equatore praticamente privo di risorse naturali e la cui economia è basata, oggi come ieri, sull’agricoltura e l’allevamento del bestiame grazie al clima temperato che lo caratterizza in quanto il territorio si sviluppa ad una altezza medi di c.a 1.700 mt. S.l.m. che lo preserva dalle problematiche malsane del clima equatoriale e permette l’agricoltura, oggi “di piantagione” ieri di sussistenza; è anche il paese “dei Gorilla”.
La sua popolazione originaria è rappresentata dai TWA in origine cacciatori raccoglitori, oggi estrema minoranza della popolazione. Nel primo millennio D.C. si stanziarono in Ruanda popolazioni chiamate HUTU di ceppo Bantu dedicate all’agricoltura, oggi l’etnia maggioritaria, successivamente intorno al XIV secolo probabilmente dalla zona Etiope sopraggiunsero popolazioni Tutsi allevatori di bestiame che sottomisero le altre Etnie e espressero la classe dominante anche se allora come oggi minoritarie da un punto di vista numerico. Questa società andò avanti per svariati secoli convivendo più o meno pacificamente anche grazie ad una sostanziale permeabilità delle classi sociali. Negli ultimi anni del XIX secolo il Ruanda fu colonizzato dalla Germania a cui succedette, dopo la fine della 1 guerra mondiale il protettorato del Belgio (una delle amministrazioni coloniali più infami che l’Africa abbia avuto) che continuò ad affidare l’amministrazione all’etnia Tutsi esasperando le differenze di Etnie. Come se tutto questo non bastasse al momento dell’indipendenza, 1962, il Belgio affidò il governo ad un presidente Hutu con conseguenti scontri interraziali che coinvolsero anche popolazioni e stati confinanti: Congo, Burundi, Tanzania. Questa situazione andò avanti fino al 16 Aprile 1994 quando il presidente Habyarimana (Hutu) fu assassinato in un incidente aereo mentre tornava da colloqui di pace per stabilizzare il paese. Da questo avvenimento si ritorna all’anniversario di cui sopra. Oggi il Ruanda è amministrato da una dittatura che ha sopito i problemi etnici e avviato il paese ad un modesto sviluppo ma è un coperchio su una pentola esplosiva pronta a saltare nuovamente in aria.
Tutto questo per inquadrare il racconto di questo libro, perché in ogni pagina che lo compone, secondo me, si sente e si avverte il suono di questa tragedia.
Dunque è la storia del “Liceo Nostra Signora del Nilo” il migliore e più esclusivo liceo del Burundi riservato alle figlie della nuova dirigenza del paese di etnia Utu: figlie di ministri, ambasciatori, militari d’alto rango, uomini d’affari e cosi via, è la scuola che dovrà formare “La futura élite femminile del paese”
Peccato che per molte di queste alunne il solo desiderio sia quello di fare un buon matrimonio con figli di ambasciatori, militari d’alto rango, ministri, uomini d’affari e così via.
Il nome del liceo deriva proprio dal fatto di essere posto nei pressi delle sorgenti del Nilo vegliate da una statua di una Madonna, nera naturalmente, proprio una vera Ruandese.
Naturalmente in ossequio alle “quote” al liceo vi erano anche ragazze di origine Tutsi certo non molto ben viste dalle altre, ma d’altronde così esigevano le regole e le regole andavano rispettate. Le ragazze più intelligenti soffrivano di questo stato di cose: emblematiche sono queste considerazioni “ E noi, che ne sarà di noi? Un diploma Tutsi non è come un diploma Utu. Non è un vero diploma. Il diploma è la tua carta di identità. Se c’è scritto Tutsi, non troverai mai lavoro, neanche presso i bianchi. E’ la quota”
L’inizio del racconto coincide con la costruzione del Liceo, e si snoda attraverso il resoconto di un anno scolastico. I primi capitoli sono leggeri, quasi divertenti, si sente l’Africa in tutti i suoi sensi, si possono immaginare, gli odori, i colori, vedere le persone, quelle più integrate e quelle ancorate ancora al passato tribale. Si notano le contraddizioni tra il potere, in questo caso il Liceo, e gli abitanti del villaggio vicino.
Come ho accennato prima il Liceo rappresenta il fior fiore della società, ma ogni riga fa vedere che questa società è falsa, che scimmiotta quella bianca di cui raccoglie il peggio, che fa propri gli ideali peggiori di essa e li pone al vertice dei propri desideri. Non cerca una sintesi tra le due culture, quella bianca e quella nera, vuole solo quella bianca ed esaspera i suoi difetti. Nel prosieguo del racconto però questa leggerezza sparisce, a mano a mano che emergono le vere personalità di tanti personaggi, “la fosca lussuria del cappellano” che approfitta della vanità di alcune ragazze, le riveste con i più bei vestiti, donati alla missione, per soddisfare i suoi istinti, ma non si può dire che approfitti della loro innocenza perché esse sono consapevoli ed accondiscendenti. L’ignavia della Madre Superiora che si volta dall’altra parte, per non vedere, che non si oppone al potere, che è sempre dalla parte dei più forti. L’astio che pervade alcune alunne Hutu verso le loro compagne Tutsi, il loro sentirsi protette in quanto parte di una maggioranza dominante, e poter agire indisturbate in ogni situazione anche la più drammatica.
Ecco quindi che l’astio degenera in odio, gli ultimi capitoli sono la preparazione ai tragici avvenimenti che coinvolgeranno il Liceo e che non saranno altro che il prologo su modesta scala del progrom che avverrà nel 1994 in tutto il paese.
Pensavamo che con la fine del Nazismo non avremmo mai più sentito parlare di genocidio, progrom, pulizia etnica eccetera ma non è così e questo libro lo dimostra. 

Raffaele Strada

Noi su Twitter

martedì 22 aprile 2014

Rubrica letteraria: un pensiero a Gabriel Garcia Marquez

17 aprile 2014


Avevo in mente tutta un’altra cosa. Ma oggi ho dovuto dire addio ad una persona che ho amato molto. Senza conoscerla, o forse conoscendola profondamente, se è vero che in ciò che si scrive c’è sempre una grande parte di noi stessi. Se ne è andato un compagno di notti insonni trascorse fra le sue pagine, spesso di una bellezza onirica. Un cantore di sentimenti e storie magiche, un pittore di personaggi così vivi da sembrare amici di lunga data. Ma anche un uomo segnato da un’inquietudine profonda, dalla voce imperiosa nella denuncia sociale, talmente imperiosa da diventare a volte la voce di un popolo.
Non ho né la competenza né, soprattutto, il coraggio per parlare di uno dei suoi libri piuttosto che un altro: mi sembrerebbe di commettere uno spregio. Li ho letti tutti e tutti mi hanno lasciato un segno nel cuore. E tutti insieme, come prismi che riflettono frammenti, compongono il ritratto del loro autore.
Ciao Gabo. Spero che tu possa trovare una penna per scrivere ancora, magari sulle nuvole. L’eternità è un tempo sufficiente per leggerti.
Silvia Corazza
“Lo zingaro veniva, deciso a restare nel villaggio. Era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non riusciva a sopportare la solitudine” (Cent’anni di solitudine)
“Se c'è una cosa per cui il giorno del Giudizio Universale dovranno condannarti è che hai avuto l'amore in casa e non hai saputo riconoscerlo” (Diatriba d’amore contro un uomo seduto)
“…i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera.” (L’amore ai tempi del colera)
“Non ho la forza per contrastare la volontà di Dio.» «Allora se la faccia venire» disse Abrenuncio. «Forse un giorno Dio gliene sarà riconoscente.» (Dell’amore e altri demoni)
“Se solo per un istante Dio si dimenticasse che sono una marionetta di pezza e mi regalasse un pezzo di vita, probabilmente non direi tutto ciò che penso, ma in definitiva penserei tutto ciò che dico” (testamento)
"Ho imparato che un uomo ha diritto a guardarne un altro dall'alto solo per aiutarlo ad alzarsi."
Gabriel Garcia Marquez

sabato 19 aprile 2014

Il successo di "Pulcinello" a Ravenna

A cura di Silvia Corazza

Allora come è andata?

Bene mi sembra! Si son presentati alla partenza tutti puntuali, con la solita sobrietà che li distingue.





Si sono salutati con molto distacco,




qualche foto di rito ma con scarsa partecipazione direi,




e poi tutti sul pullman, dove si son sistemati con la loro usuale compostezza.





Il viaggio è stato tranquillo. L’accoglienza calorosa e non ci sono stati problemi, a parte con un tecnico del suono dai capelli blu a cui evidentemente il colorante si era infiltrato nel cervello. Il teatro era molto particolare, ricavato da un vecchio magazzino per la conservazione dello zolfo, tutto in mattoni a nudo. 





Per correttezza devo dire che i ragazzi un po’ si sono lamentati, perché non hanno trovato i camerini all’altezza delle aspettative.





Un’ottima e abbondante cena a buffet , offerta dall’organizzazione , a cui hanno partecipato con riluttanza.




Qualcuno aveva proprio la bocca cucita,



tanto che gli accompagnatori hanno dovuto insistere 





e allora un po’ hanno mangiato.




Ma poco però, perché tutti erano convinti dell’importanza di “rimanere leggeri”.




La visita inattesa di un amico





 e poi a prepararsi per lo spettacolo. C’era chi per trovare la concentrazione preferiva la meditazione solitaria,




chi invece cercava il conforto del gruppo.




Qualcuno si occupava di relazioni sociali 




mentre venivano messi a punto gli ultimi dettagli,




 un attimo di condivisione prima che si accendano i riflettori 




e poi tutti a cambiarsi! 




Trucco e parrucco 






e qualcuno ne approfitta per ripassare le battute.




Si spengono le luci e si accendono i discorsi di rito: presentazione della serata 





presentazione dell’AT21 da parte di un “facente le veci” 




e tutti in scena! Si canta,



si balla.




qualche incertezza c’è sempre, 




ma tutto si risolve in un sorriso 




da veri attori consumati! 




Sono stati bravissimi, niente da dire. Dopo Pulcinello di corsa nei camerini per prepararsi per il mimo che li ha resi famosi nel mondo,




quello del Tavolo. E lì qualche attimo di sgomento c’è stato: chi non trovava i guanti, chi non aveva la cintura, chi gli prudeva il trucco, chi gli bruciava la faccia, chi voleva lo spray per la gola. Ma per Anna & Co. immagino sia la solita routine, infatti sfoggiavano lo stesso sorriso di sempre.





E il pubblico, entusiasta, ha persino richiesto un bis! I ragazzi hanno affrontato la novità con scioltezza e si sono esibiti nel mimo delle Mani. Applausi scroscianti e poi tutti a letto. Purtroppo non li ho potuti accompagnare, ma le leggende raccontano che la notte sia stata abbastanza movimentata per alcuni (chi voleva la padella…la padella?!?! Chi voleva aiuto per vomitare, chi per non vomitare, insomma, ordinaria amministrazione!) Tutti concordi nel dire che il posto era splendido, però!

La mattina colazione con dolci fatti in casa e poi rientro a Ravenna per la visita della città, con accompagnatore. 




Tutti molto colpiti dalla bellezza dei mosaici,



qualcuno frastornato al punto di confondersi 




e qualcun altro finisce nelle grinfie della legge.




Pranzo improvvisato con piadina,




foto di gruppo 




e si torna a casa!



Quindi si sono divertiti?



Certo! Perché, avevi dei dubbi? 






Noi su Twitter

lunedì 14 aprile 2014

Rubrica letteraria: Le mie fiabe africane


Le mie fiabe africane
Nelson Mandela



E’ stato con mia grande sorpresa che un po’ di tempo addietro, rileggendo una biografia di Mandela e l’elenco dei suoi scritti, mi sono imbattuto in questo libricino (perché in effetti lo è nel vero senso della parola) e quindi, mosso dalla mia solita curiosità per l’insolito ed il diverso, l’ho acquistato. E’ veramente un libro di favole dedicato ai bambini, ma leggerlo non fa male neanche ai grandi,  perché c’è sempre una parte del  fanciullo che fu dentro di noi: d’altronde le favole non sono altro che ricordi ancestrali della cultura dei popoli, in questo caso popoli africani, e solo un uomo che ama (mi fa piacere pensare che “MADIBA” sia ancora con noi) la sua gente ed il loro spirito più profondo poteva pensare ad una raccolta di favole dopo essersi prodigato per salvare il Sud Africa e forse gran parte del continente africano da un bagno di sangue. Molto bella è la motivazione che Mandela ci consegna per aver raccolto queste storie:  “il mio più profondo desiderio è che in Africa la voce dei cantastorie possa non morire mai” La storia e la cultura africane sono per lo più orali e quindi non facilmente rintracciabili ne assimilabili, anzi molto spesso si perdono con il passare del tempo e delle generazioni, tanto da far apparire l’Africa come una terra senza cultura, tradizioni, civiltà, buona solo per essere occupata, sottomessa,  sfruttata e poi lasciata lì a morire.
 “Noi non vogliamo, non vogliamo affatto intendere, che quel che ci accingiamo a raccontare sia vero”. Queste sono le parole con cui i cantastorie “ASHANTI” iniziano i loro racconti e sono molto belle perché ogni storia raccontata da ognuno di noi ai nostri figli o nipoti, diventa una storia unica, arricchita o mutilata dalla nostra sensibilità, dalla nostra cultura, dai nostri ricordi, dalle nostre paure, o gioie: è la storia di chi la racconta. Naturalmente tutte le favole del mondo sono simili, ed anche qui c’è l’ammonimento per i bimbi disubbidienti, c’è Cenerentola, ci sono da risolvere indovinelli per poter realizzare un desiderio, c’è una specie  di Cappuccetto Rosso. Poi ci sono gli animali, tanti animali: scaltri o sciocchi, veri o magici, piccoli e grandi, forse sono loro, insieme alla natura, i veri protagonisti delle fiabe. Ma in ultimo, secondo me, si sente in ogni pagina l’Africa, con i suoi mille popoli e le sue mille culture. Quindi un libro affascinante ma di facile lettura, oltretutto i racconti sono molto brevi, si prende e si lascia con facilità,  si riapre in ogni momento del giorno, a colazione come a cena, ma sempre con gioia e allegria anche nelle favole più cupe. Naturalmente c’è una mia fiaba preferita ed è l’ultima; il suo titolo dice “ La madre che divenne polvere ”. Racconta il mito della Creazione visto con gli occhi di una narratrice del Malawi dove la parte principale è riservata alla nostra Madre Terra. Gli uomini non capiscono quanto lei li ami, continuano a litigare tra sé a sfruttarla senza alcuna riconoscenza fino a farla morire. Queste dunque sono le ultime righe di questo libro, ancora piene d’amore e speranza come ogni madre dispensa sempre e comunque ai propri figli...”E in quello stesso giorno di ogni mese, la Luna guarda i suoi figli che litigano e discutono. Scorge le figlie guidate dalla giovane donna e indaffarate a curare e guarire, a servire e salvare, così come faceva lei prima. Ma i figli delle figlie della Luna continuano a litigare, a scontrarsi a lamentarsi. E la Luna, vedendo tutto ciò, non può fare a meno di nascondere la faccia e piangere, prima di avere la forza di tornare a guardare , mostrando solo la metà del  suo volto. Poi poco alla volta si gira, finché  la sua faccia piena risplende con amore. In quelle notti, qualcuno coglie quell’amore e lo fa circolare. Le figlie della Luna intonano allora il canto di chi si prodiga per gli altri, esprimendo ancora un desiderio: che tutti i figli possano imparare di nuovo ad amare la Madre.

Proprio mentre pensavo a come riportare questo libro (i miei tempi di gestazione sono abbastanza lunghi), ho visto un articolo pubblicato sulla rubrica Cultura del quotidiano La Repubblica del 27 marzo scorso scritto da Desmon Tutu,  compagno di lotta di Mandela  e altro grande creatore  del moderno Sud Africa, che mi ha profondamente colpito, oltre che per il tema pubblico o politico che dir si voglia, per quanto di personale egli scriva e per quanto mi sia ritrovato in quelle righe.
Il titolo è:                          PERDONO MIO PADRE, IL SUDAFRICA E ME STESSO
Chi avesse voglia di leggerlo lo può trovare facilmente su internet e quindi scrivo queste righe solo per ricordare anch’io mio padre.
Fortunatamente mio padre non ha mia bevuto né maltrattato mia madre, però lavorava tantissimo, mi sembrava sempre burbero, chiuso, raramente mi faceva un complimento, quasi mai aveva tempo per stare con me, parco di lodi ricco di rimproveri. Era difficile in quell’adolescenza  “volergli bene”. Eppure eravamo, io e mia madre, tutta la sua vita.
Ho capito, questo,  molto tempo dopo, quando ha dovuto sopportare le mie isterie, soffrire in silenzio per la mia separazione, vivere da solo la solitudine della vedovanza, accogliermi adulto ancora sotto il suo tetto a sconvolgergli la vita; quando è morto e io non c’ero perché non potevo mancare in ufficio e la morte non sai quando arriva e non rispetta gli orari dell’ufficio.
Ho capito quale e quanto fosse il suo affetto dopo la sua scomparsa, quando lentamente un senso di colpa oscuro e strisciante mi è entrato dentro per non averlo mai ringraziato per quello che aveva fatto per me e per la mia vita. Per aver parlato poco tra noi, per  averlo sopportato,  per non essere stato lì vicino negli ultimi attimi di vita. 
Lui non poteva darmi di più non ne aveva i mezzi.                       
Allora termino questo ricordo con le parole di  Tutu...“TI CHIEDO SCUSA” , sono le parole più difficili da dire ma sono anche quelle che ci riscattano dagli errori “

Raffaele Strada

giovedì 3 aprile 2014

Rubrica letteraria: Casa Bargellini







Non è un libro stavolta il soggetto di questa “recensione”, ma un luogo. Un angolo nascosto e poco conosciuto della nostra splendida città che, comunque, con i libri ha molto a che fare. Sto parlando di Casa Bargellini.

Il palazzo, in via delle Pinzochere, a lato della Basilica di Santa Croce, fa parte del circuito delle Case della Memoria. Qui risiedeva Piero Bargellini, più noto come il Sindaco dell’Alluvione, e la visita si articola in 3 luoghi: l’androne e il giardino e le due stanze del suo studio.

Già il palazzo vale da solo la visita: appartenuto ai Cepparello, ai Poggio Bracciolini, agli Antinori, ai da Verrazzano (esatto, quello del ponte e della nave), e a Casamorata, è un tipico palazzo rinascimentale con l’altana, un giardino impensabile, un portico ad archi e colonne snello ed elegante, pietra serena a profusione. Per una rampa di scale cinquecentesca (originale) si entra nella prima delle due stanze dello studio. L’atmosfera è incredibile. Oggetti, ricordi, pezzi di affreschi, biglietti di ringraziamento, articoli di giornale, fotografie, quadri, ritratti, mani di statue lignee, persino lo zaino con cui Lelia, moglie di Piero, andò in viaggio di nozze. I due si recarono in Corsica e la visitarono muovendosi a piedi e mangiando e dormendo dai contadini. Tornarono magrissimi e neri come calabroni, tanto che i loro genitori li costrinsero ad un mese di clausura perché impallidissero e rimettessero su qualche chilo. Stiamo parlando del 1929.

Ogni oggetto ha una storia ed è legato a qualche aneddoto della vita della famiglia Bargellini (famiglia numerosissima visto che Piero e Lelia ebbero sette figli e 16 o 17 nipoti), compresi i 2 pianoforti su cui suona e studia Gregorio Nardi, musicista e studioso, nipote di Piero e cicerone della nostra visita insieme a Annegret, arrivata in Italia nel 1984, quindi dopo la morte di Bargellini, ma che ne parla con una passione e una tenerezza da farti pensare che sia lei, la nipote.

Un capitolo a parte spetta alle lettere che il Sindaco riceveva, su sua sollecitazione, dagli alluvionati con le richieste di aiuto. In mostra ce n’è una sola ma Gregorio conta di pubblicarne una raccolta per il cinquantennale. Piero Bargellini si trovò sindaco per caso: il governo di Firenze era commissariato da molto tempo e fu deciso di eleggere protempore una figura non schiettamente politica. Fu scelto quello che era ritenuto un intellettuale. Il suo mandato doveva durare 3 mesi, da luglio a settembre del ’66, ma alla scadenza gli fu chiesto di rimanere fino all’8 novembre 1966, data in cui era fissata la riunione del consiglio comunale per eleggereil Primo Cittadino della Città Gigliata. Ovviamente, l’8 novembre 1966 non c’era la processione di persone disposte a fare il Sindaco e Bargellini rimase ad assolvere un compito gravosissimo, di cui nessuno lo riteneva capace e lo fece a suo modo: con concretezza e guardando prima alle persone e poi alle cose. Resta famosa una delle sue frasi: prima del Cristo di Cimabue devo pensare ai poveri cristi. C’era quindi, dicevamo, bisogno immediato di risolvere le urgenze delle persone che avevano perso tutto: casa, attività, speranza. Dalla Camera di Commercio americana arrivava denaro in quantità enormi e il Sindaco, per distribuirlo con criterio, saltando la burocrazia che fra l’altro neppure funzionava, chiese ai cittadini di scrivergli, ma di scrivergli a casa, in modo da fargli sapere di cosa avessero bisogno, in modo che lui avesse evidenza di come il denaro veniva elargito e in modo da non rendere vane, ma immediatamente evase, le richieste di aiuto. Quelle lettere (Gregorio racconta che più o meno ad ognuna corrisponde un biglietto di ringraziamento) sono uno spaccato di umanità commovente. Per fare un paio di esempi, una cominciava con: “Gentile signor Sindaco, come da accordi presi in data 9 novembre sul tram numero 14…”(Bargellini viaggiava in autobus e lì parlava con le persone); un’altra invece contiene una vera e propria lista della spesa di una donna che aveva perso anche i letti ed aveva bisogno dei soldi “..per pagare il gasse, per comprare il cappotto e un frigidaire. Mi servono almeno 33.000 mila lire, signor Sindacho…”(non è un refuso, lo scriveva proprio così!)

Si passa poi nell’altra stanza, il vero e proprio “sancta sanctorum” di Bargellini. Anche qui oggetti a profusione ma soprattutto libri. Piero era uno scrittore, anche, e il Palazzo fu comprato proprio con i soldi che Vallecchi fornì a Lelia “come anticipo sui proventi del prossimo libro di mio marito”. Il “prossimo libro” in questione fu un testo pedagogico, Bellariva, che ebbe un successo tale da coprire le spese dell’acquisto e degli 8 anni di restauro seguenti. Ci sono storie molto belle legate proprio a questo, visto che il palazzo fu comprato nel 1946 dalla moglie di Piero ed era diviso in tanti appartamenti in cui abitavano svariate famiglie, quasi tutte indigenti e fu cura di Bargellini non procurare loro pressioni ed aiutarli a ritrovare una nuova sistemazione, ma, signori miei, se vi racconto tutto vi tolgo il piacere della visita!

In questa ultima stanza, dicevo, Piero lavorava. Scriveva i suoi libri, studiava, faceva progetti (era geometra! Lo sapete che ha disegnato lui piazza Gavinana quando era assessore? E lo sapete che lo chiamavano “Bargellini panca e pini” perché piantava alberi dovunque? A lui si debbono gli alberi della zona di piazza Viesseux per esempio. Pare che se qualcuno calvo girava senza cappello gli dicessero: mettiti il cappello che se Bargellini ti vede la piazza ci pianta un albero! Ha fatto tantissimo per Firenze, che amava profondamente, a cominciare dal recupero di Forte Belvedere, allora ancora militare, fino ai tabernacoli lungo le strade. Gregorio racconta che la sera spesso lo accompagnava fuori a piedi, in piazza Tasso per esempio, dove andava a controllare che i lampioni funzionassero o a verificare se qualche lamentela che aveva ricevuto fosse fondata. Girava per strade di cui l’attuale Giunta ignora l’ubicazione e probabilmente l’esistenza!) E curava le sue riviste. Non prima però di aver risposto a tutta la sua corrispondenza. Quello era il suo primo impegno: rispondere a tutti. Davanti a quel tavolo sono passati alcuni dei nomi che hanno fatto la storia della letteratura moderna: Carlo Bo, Indro Montanelli, Mario Luzi, Gianni Rodari, Carlo Betocchi, Ungaretti, Quasimodo. Artisti d’ogni tipo come Costetti (potrei raccontarvi la storia del ritratto fatto da Costetti ai due sposi…potrei ma non lo farò!), Viani, Rosai e chi più ne ha più ne metta. In quello studio è nata l’associazione amici dei Musei e in quella stanza si riuniva il potentissimo Comitato dell’estetica cittadina. E per tutti c’è un aneddoto, per ognuno una storia particolare.

E’ stata un’esperienza emozionante, l’incontro con un uomo che non ho conosciuto ma che, grazie alle sue cose, sembrava presente: una personalità di un’onestà intellettuale e morale rarissima, concreto, pragmatico, disponibile verso chiunque a prescindere dal nome o dal colore. Un uomo che ha amato Firenze come si ama una donna e la sua gente come si amano i figli. Un giusto, come direbbero gli ebrei.

Un’esperienza talmente coinvolgente che l’ho voluta condividere immediatamente, tanto che ci sono ritornata una seconda volta dopo solo 10 giorni. Ed è stato ugualmente bello.

Va detto che per una buona parte incidono Gregorio (di cui, fra l’altro, mi sono perdutamente innamorata dopo più o meno quattro minuti) e Annegret: il loro affetto e la loro passione sono tangibili. La vita del loro nonno, raccontata dalle loro voci, sembra un romanzo d’avventura.

Certo, potrei anche raccontarvi di quando Lelia buttò fuori di casa Fanfani tenendolo per un orecchio, o di quando la nascita dell’ultima figlia salvò la vita a Lelia e Piero, di quando Bottai s’impegnò perché Bargellini non venisse fatto fuori, di quando “razza: dicesi di ovini e buoi, non certo d’uomini!”, di quando...

Silvia Corazza

Sesso e affetti. The special need visto con i nostri occhi


Clicca qui per leggere l'intervista su Repubblica


Noi su Twitter